mercoledì 31 ottobre 2018

gli atomi e il clinamen

Gli atomi sono in movimento perenne, a diversa velocità: il loro turbinio è reso con l’immagine del moto del pulviscolo in un raggio di sole, che penetra in una stanza buia (II, 114-124). La loro traiettoria non è perpendicolare, ma risente di una deviazione (clinamen), che sottrae l’incontro degli atomi a una rigorosa necessità. In quest’universo di vuoto e materia mobile gli dèi hanno un ruolo marginale, che non interferisce con la vita degli uomini; sulla scorta di quanto hanno cantato i poeti greci, viene descritta la Dea Madre, Cibele, con i suoi rituali: ma si tratta di leggende lontane dalla verita (II, 645: longe... a vera ratione repulsa). Gli atomi hanno forme differenti, ma la loro varietà non è infinita; infinito è invece il loro numero. Lucrezio mette in poesia il congiungimento e la separazione della materia, artefici della vita e della morte, come principio che regola la vita in tutto l’universo; né il nostro mondo può considerarsi l’unico, dal momento che il vuoto e la materia atomica sono infiniti. Ma tutto deperisce con il tempo: la Terra è stanca e, dopo aver creato tutti i viventi, ha ora perduto la sua forza generativa (II, 1150-1152: iamque adeo fracta est aetas effetaque tellus /... quae cuncta creavit / saecla)
L’argomentazione lucreziana è volta a difendere il vero punctum dolens della teoria epicurea, su cui si erano appuntate le maggiori critiche dei detrattori; ad esempio Cicerone (De fin. 1,6,19) non si perita di definirla res tota ficta pueriliter, poiché se nil de nilo è un principio fondamentale della fisica, occorre di conseguenza postulare una causa precisa per ogni fenomeno. Nel passo quindi si avverte la tensione didattica dell’autore, come pure l’attenzione a calibrare il concetto di clinamen, essenziale e fondamentale, perché su di esso si fonda anche quell’impulso primario che è il libero arbitrio dell’uomo, nel cui animo risiede la forza morale in grado di controllare i vari impulsi interni o esterni ad esso. In tal modo Lucrezio riesce a rendere sillogisticamente ineccepibile il passaggio dalla fisica all’etica ed il clinamen viene ad assumere l’aspetto di una soluzione che, se all’apparenza può risultare arbitraria, perché può essere considerato insufficiente il principio di non contraddizione, non può comunque essere liquidata semplicisticamente come fantastica, soprattutto alla luce delle più recenti osservazioni nel campo della fisica. 




Il clinamen

       A questo proposito voglio che tu sappia anche
      che, quando i corpi cadono diritti attraverso il vuoto
       per il loro peso, in qualche tempo e luogo
       non definiti deviano per un poco, tanto che appena
220 può dirsi modificato il loro percorso.
      Se non usassero deviare, cadrebbero tutti
      come gocce di pioggia nel vuoto profondo,
       non si produrrebbero scontri né urti
       fra gli elementi, e la natura non avrebbe creato mai nulla.
225 Se c’è chi crede che i corpi più pesanti, cadendo
       dritti nel vuoto a maggiore velocità, per ciò possano
        piombare dall’alto sui corpi più leggeri e in tal modo
        produrre gli urti che diano vita ai moti generativi,
        va molto lontano dalla vera ragione.
230 Tutte le cose che cadono attraverso l’acqua e l’aria
       sottile accelerano necessariamente il proprio moto a seconda del peso,
       perché la sostanza dell’acqua e la tenue natura dell’aria
       non possono trattenere ogni oggetto alla stessa misura,
       ma cedono più velocemente, vinte dai corpi di maggior peso.
235 Ma in nessuna parte e nessun momento
      il vuoto può resistere a qualunque cosa
      senza ritirarsi, come chiede la sua natura;
      per ciò tutti i corpi, attraversando il vuoto immobile,
     devono cadere egualmente, pur avendo peso
240 diseguale . Dunque i più pesanti non potranno mai
       piombare dall’alto sui più leggeri e produrre gli urti
       capaci di modificare il moto per cui la natura dà vita alle cose.
      È dunque necessario che i corpi deviino
      un poco, non più di un minimo: non dobbiamo immaginarci
245 movimenti obliqui, smentiti dalla realtà stessa .
      Vediamo infatti ben chiaro ed evidente
      che di per sé i corpi non possono muoversi obliquamente
      quando precipitano giù dall’alto, come si può vedere .
      Ma chi è che può vedere che non deviino
250 assolutamente dalla linea retta nel loro percorso?
       Infine, se ogni movimento è connesso ad altri,
       e il nuovo nasce dal vecchio in un ordine determinato,
       e gli elementi deviando non provocano
      l’inizio di un moto capace di spezzare le leggi del fato,
255 in modo che la causa non segua la causa all’infinito,
      da dove nasce in terra per gli esseri viventi, ti dico,
       la libera volontà indipendente dal fato,
      grazie alla quale procediamo ognuno dove lo guida
     il piacere, e deviamo dal nostro percorso non in luogo
260 né in tempo determinato, ma quando lo decide la mente?
      Senza dubbio è la volontà di ciascuno che dà inizio
       a tutto ciò, e di qui i moti si diffondono per le membra .
      Non vedi che quando si aprono tutte d’un colpo le sbarre,
      la forza smaniosa dei cavalli non può prorompere
265 subito come la mente di per sé vorrebbe?
      Tutta la massa della materia deve essere
      sollecitata per tutto il corpo perché, sforzata
      attraverso tutti gli arti, segua la volontà della mente;
      così vedrai che l’inizio del moto si crea dal cuore
270 e procede all’inizio della volontà del nostro animo,
      poi si diffonde per tutto il corpo e le membra.
      Non è come quando avanziamo spinti da un urto,
      per la forza preponderante e la spinta di un altro.
      In quel caso è evidente che tutto il nostro corpo
275 si muove ed è trascinato contro il nostro volere,
      finché la volontà non lo frena attraverso le membra.
     Non vedi dunque che, benché una forza esterna costringa
     spesso molti uomini a procedere contro il loro volere
     e a farsi trascinare a precipizio, tuttavia c’è nel nostro petto
280 qualcosa che può fare resistenza e combattere?
      Al suo volere anche la massa della materia
      è spesso costretta a piegarsi attraverso le membra e gli arti,
      e a frenarsi e a indietreggiare nel proprio slancio.
      È dunque necessario riconoscere che anche nei corpi elementari
285 c’è un’altra causa di moto oltre agli urti e al peso,
      da cui ci arriva questa facoltà innata
      poiché sappiamo che nulla viene dal nulla .
      Il peso impedisce che tutto si produca attraverso gli urti
      come per una forza esterna. Ma che la mente
290  in tutto ciò che compie non abbia una necessità interna,
      che non sia sconfitta e costretta a sopportare,
     ciò nasce proprio dalla piccola inclinazione degli elementi
     che avviene in un momento e un punto indeterminati .


Franz Kafka, due millenni dopo, esprimeva lo stesso concetto, quasi con le stesse parole, più e più volte. Das winzigste Kleinigkeit, cioè la più minuscola piccolezza (e potremmo ben tradurre anche dicendo: «la più esigua declinazione»), può «decidere della esistenza di un uomo».

La paura della morte e i suoi meccanismi psicologici

L’elogio di Epicuro, che ha rivelato agli uomini la verità sulla natura, mettendo in fuga i timori degli animi, ed in particolare il timore degli dèi e dal timore della morte, apre il libro III . Sede della sensibilità e dell’intelligenza è l’animus («spirito», potremmo dire); ad esso è sottoposta l’anima, diffusa per tutto il corpo, mediante la quale vengono percepite le sensazioni fisiche. Entrambi hanno consistenza materiale – ma gli atomi che le compongono hanno una diversa qualità – e sono mortali, sicché risultano vane le paure degli uomini di un castigo dopo la morte: non esistono i grandi “peccatori” del mito (come Tantalo e Sisifo), puniti nell’inferno pagano. Di conseguenza, la morte non è da temere, perché, quando ci coglie, noi non siamo più (III, 830: «Nulla è per noi la morte e per niente ci riguarda»): non bisogna temere la morte, che colpisce tutti (re, generali e lo stesso Epicuro), né avere disgusto per la vita, per quell’insoddisfazione che spinge a fuggire da se stessi. Piuttosto, bisogna sforzarsi di comprendere la natura delle cose (III, 1072: naturam... cognoscere rerum), per capire le ragioni del proprio disagio esistenziale.


III 31-40; 55-93
Et quoniam docui, cunctarum exordia rerum
qualia sint et quam variis distantia formis
sponte sua volitent aeterno percita motu
quove modo possint res ex his quaeque creari,
35hasce secundum res animi natura videtur
atque animae claranda meis iam versibus esse
et metus ille foras praeceps Acheruntis agendus,
funditus humanam qui vitam turbat ab imo
omnia suffundens mortis nigrore neque ullam
40esse voluptatem liquidam puramque relinquit.


Quo magis in dubiis hominem spectare periclis
convenit adversisque in rebus noscere qui sit;
nam verae voces tum demum pectore ab imo
eliciuntur ‹et› eripitur persona, manet res.
Denique avarities et honorum caeca cupido
60quae miseros homines cogunt transcendere finis
iuris et interdum socios scelerum atque ministros
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes, haec vulnera vitae
non minimam partem mortis formidine aluntur.
65Turpis enim ferme contemptus et acris egestas
semota ab dulci vita stabilique videtur
et quasi iam leti portas cunctarier ante;
unde homines dum se falso terrore coacti
effugisse volunt longe longeque remosse,
70sanguine civili res conflant divitiasque
conduplicant avidi, caedem caede accumulantes;
crudeles gaudent in tristi funere fratris
et consanguineum mensas odere timentque.
Consimili ratione ab eodem saepe timore
75macerat invidia ante oculos illum esse potentem,
illum aspectari, claro qui incedit honore,
ipsi se in tenebris volvi caenoque queruntur.
Intereunt partim statuarum et nominis ergo.
Et saepe usque adeo, mortis formidine, vitae
80percipit humanos odium lucisque videndae,
ut sibi consciscant maerenti pectore letum
obliti fontem curarum hunc esse timorem,
hunc vexare pudorem, hunc vincula amicitiai
rumpere et e summa pietatem evertere sede.
85Nam iam saepe homines patriam carosque parentis
prodiderunt, vitare Acherusia templa petentes.
Nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
interdum, nilo quae sunt metuenda magis quam
90quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.

Analisi dei versi: 
ragione contro paura: il verso 31 si apre con una formula di passaggio tipicamente lucreziana e propria del genere del poema didascalico, et quoniam docui, che introduce una sintesi dei contenuti del libro precedente, dedicato alla teoria dell’aggregazione e disgregazione dei corpi.
Nei due versi successivi Lucrezio anticipa il nuovo argomento, la teoria dell’anima, con una variatio del soggetto ottenuta attraverso l’uso della perifrastica passiva (animi natura atque animae claranda esse), che dà l’idea dell’urgenza didattica avvertita dal fedele ed entusiasta seguace di Epicuro. Significativo è l’uso del verbo clarare che, oltre ad indicare la ricerca, lo sforzo di chiarezza, perseguito non senza difficoltà e con l’orgoglio di sperimentare una nuova strada, quella della poesia filosofica, introduce una prima immagine di luce, la luce della ragione e della poesia, contrapposta all’oscurità dell’ignoranza, secondo quell’antitesi luce-tenebre, vita-morte, che permea tutto il De rerum natura.
L’espressione claranda meis … versibus esse suona inoltre come un’implicita dichiarazione di poetica: i versi sono il mezzo per il fine, la poesia diventa strumento di verità; scienza filosofica e poesia si integrano, la seconda necessaria alla prima.

Paura della morte,infelicità umana L’ispirazione del poeta non è solo razionale, è anche passionale ed è questa che lo induce, a scapito dello sviluppo logico e ordinato dell’argomentazione, ad un’insistenza quasi ossessiva sulla paura della morte, la principale responsabile, insieme alla quella degli dei, dei profondi turbamenti della vita umana, stando ai dettami epicurei. Questa insistenza trova riscontro nei numerosi sintagmi sinonimici che Lucrezio “sparge” nei suoi versi per indicare la paura della morte: metus Acheruntis, mortis nigrore, Tartara leti (altro pleonasmo), mortis formidine (usato due volte), leti portas, falso terrore, eodem timore, Acherusia templa (usata anche nel I libro), terrorem animi; inoltre quattro volte è usata la parola tenebra (vv. 77, 88, 90, 91).
Nei versi 37-40 colpisce soprattutto la concretezza delle immagini usate, qualità tipica del linguaggio lucreziano, che tende a dare un rilievo fisico, tangibile, visibile a concetti astratti - in questo caso quello della morte - visualizzandoli, quasi a volerli rendere “fisicamente” cancellabili nella mente del destinatario. La forza visiva del linguaggio lucreziano emerge in espressioni quali foras praeceps agendus (v. 37) riferito a metus Acheruntis, o suffundens omnia nigrore (v. 39) che oggettivizza la morte in una sorta di liquido che si sparge sulle cose; a questa immagine si richiama, nel verso successivo, l’aggettivo liquidam riferito a voluptatem, ad indicare la limpidezza, la chiarezza, la serenità della gioia, contrapposta al torbido e angoscioso mortis nigrore.
Da notare anche la ridondanza e il disordine del v. 38, dovuti all’uso dell’iperbato e dell’anastrofe (funditus … ab imo in rilievo ai due estremi del verso, qui con funzione di soggetto interposto a metà verso tra humanam e vitam; funditus è ripreso da suffundens del verso successivo), che possono essere sì imputabili alla mancata revisione del poema, ma qui sembrano tradurre sintatticamente il disordine, l’abisso interiore provocato nell’uomo dal timore della morte. 

Degradazione dell'animo:rimedi?  i vv.70-73, in cui il poeta insiste sull’argomento dipingendo un quadro ripugnante della degradazione cui può arrivare l’uomo per sfuggire al contemptus e all’egestas associati alla morte: studiata è la collocazione dei due infiniti perfetti effugisse e remosse collegati dalla ripresa dell’avverbio longe (su questo tema della fuga da se stessi e dalle proprie inquietudini, del commutare locum, che sarà ripreso da Orazio e da Seneca, il poeta ritorna nel finale del libro); il poliptoto caedem caede, con cui prosegue l’insistente allitterazione della /c/ che dal verso precedente (conflant) si prolunga fino ai vv. 72 (crudeles) e 73 (consanguineum); studiatissima anche la collocazione e la scelta delle parole di tutto il verso 71, iconico nel rendere l’immagine dell’ammassarsi di ricchezze e di stragi attraverso i due verbi sinonimici, conduplicant e accumulantes in risalto per l’insolita lunghezza alle due estremità del verso. Un’ennesima ridondanza si crea con conflant del verso precedente, allitterante con conduplicant: riaffiora ancora una volta la cosiddetta abundantia lucreziana.
La pausa forte al v. 71 segna il passaggio al distico finale di questo gruppo di versi, cui sono affidate le immagini della massima crudeltà e brutalità raggiunte persino nella vita privata, nei confronti dei propri cari: qui sono la pesantezza del ritmo spondaico e la struttura fonica del v.72 con le insistenti allitterazioni (crudeles … tristi funere fratris) ad enfatizzare la tristezza del contenuto. L’uomo, perso ogni sentimento di umana pietà e solidarietà, si consuma nell’invidia dei potenti - spicca l’antitesi verticale tra illum e ipsi, entrambi in incipit rispettivamente al v.76 e 77 - fino a cercare paradossalmente nel suicidio quella stessa morte tanto temuta.
In tutto questo drammatico, patetico scenario la presenza dell’autore è rivelata da espressioni, soprattutto aggettivi valutativi, che esprimono sì il punto di vista dell’intellettuale “illuminato” dalla dottrina del Maestro, ma tradiscono anche la pietà del poeta (miseri del v. 51, miseros homines del v. 60, marenti pectore, v. 81), la compassione verso il triste e tragico spettacolo di un’umanità smarrita e sofferente, alle prese con la fatica di vivere, da cui nessuno è immune.
Emerge una intensa capacità di analisi dell’animo umano, propria di chi, a differenza di quei miseri mortali obliti, conosce le leggi della natura (rerum natura : da qui il titolo) e sa che la causa del loro malessere è la subdola (suadet del v. 84) paura della morte, quasi personificata - come suggerisce anche l’uso del complemento d’agente ab eodem timore del v. 74 - che li costringe ad affannarsi (praestante labore, v.62), a macerarsi (macerat, v. 75), a rotolarsi nel fango e nelle tenebre (in tenebris volvi caenoque) di un inferno terrestre. Sì, perché, come il poeta dichiarerà nei vv. 978-1023, la vita dell’Inferno per gli stolti si avvera sulla terra (Hic Acherusia fit stultorum denique vita) e le pene, i castighi infernali che si immaginano nell’Acheronte in realtà sono nella nostra vita, sono rappresentazioni allegoriche dei tormenti e delle angosce dell’animo umano (Atque ea nimirum quaecumque Acheronte profondo/prodiga sunt esse, in vita sunt omnia nobis): il timore degli dei, la passione amorosa, l’ambizione, l’avidità. Ritorna anche l’immagine delle tenebre, ripresa in vitae odium lucisque videndae, che crea una paradossale antitesi con mortis formidine del verso precedente.
Nei vv. 82-84 sono ribaditi e riassunti gli effetti di questo timore (hunc timorem) in tre oggettive dipendenti da obliti, dove l’anafora di hunc enfatizza l’appassionato discorso polemico del poeta: fonte di angosce, distruzione del senso del pudore, rottura dei vincoli dell’amicizia. L’ultima conseguenza è espressa con una variazione della struttura sintattica, per cui timor da soggetto delle proposizioni infinitive diventa soggetto sottinteso del verbo suadet, acquistando maggiore risalto: si tratta della perdita della pietas che, come chiarisce il passo successivo introdotto da nam, sfocia nel tradimento della patria e dei genitori. Particolarmente solenni questi due versi 85-86, cui l’uso del perfetto gnomico prodiderunt conferisce un tono solenne, rafforzato dalle allitterazioni (/p/ e /t/) e dall’enjambement.
Segue la famosa similitudine tra i timori degli uomini e quelli dei fanciulli spaventati dalle tenebre, a sottolineare le illusorie e inutili paure che angosciano l’esistenza umana: spicca in studiato rilievo caecis alla fine del v. 87, separato in enjambement da in tenebris, che richiama la caeca cupido del v.59 (questi esametri si ritrovano identici nel secondo libro). Il poeta insiste sulla metafora dell’assenza di luce, come conferma anche la ripetizione a breve distanza del termine tenebrae (v. 77, 88, 90, 91).
La formula dei vv. 91-93 (usata già nel I libro) conclude (igitur), ricollegandosi ai vv. 36 sgg. (anche nella ripresa dell’idea di dovere con necessest), e ribadisce lo scopo dei versi: discutere - ancora un’espressione dal forte impatto visivo come foras agere del v. 37 - hunc terrorem (riprende hunc timorem del v. 82) tenebrasque con la ratio, ossia la descrizione e lo studio della natura, espressa nell’efficace endiadi naturae species ratioque, centrale nell’ideologia che sorregge il poema. Ai lucida tela diei (v. 92) si sostituiscono i lucida carmina, i limpidi versi (I, 933-934), le vere armi del poeta per combattere la sua battaglia contro l’ignoranza e la superstizione e offrire, addolcita attraverso la poesia, una vera e propria medicina doloris per guarire i vulnera vitae.

Raffaella Di Meglio ,letteratour 

martedì 30 ottobre 2018

L’inferno lucreziano

 In questo III libro Lucrezio ricorre a tutti gli artifici retorici di cui dispone per fugare il timore della morte che affligge l’uomo: dopo l’iniziale inno ad Epicuro e la dimostrazione che l’anima, come il corpo, è composta di atomi, nella parte centrale del libro si dimostra, con una accomulazione di 29 prove differenti (vv. 417-829), che conseguentemente anche l’anima deve essere mortale, e che quindi nil igitur mors est ad nos (v. 830), e non si deve temere neppure per la dissoluzione del nostro corpo dopo la morte, e della distruzione cui potrà essere esposto da parte di uccelli e fiere. Infatti come non si avverte ciò che è prima della morte, così non sentiamo ciò che avviene dopo il nostro annientamento. Rendendosi tuttavia conto del fatto che le prove razionali non sono sufficienti, Lucrezio si affida alla voce della Natura personificata, con una “prosopopea” di grande effetto (vv. 931-962) che richiama sì quella delle Leggi nel Critone di Platone, ma che rimanda soprattutto ad Epicuro che aveva personificato la Natura e aveva invitato a ringraziarla perché ha reso facile procurarsi il necessario (fr. 469 Us.): se la vita è stata passata è stata piena di gioie – dice dunque rivolgendosi direttamente all’uomo – allora «perché non ti allontani come commensale sazio della vita e a cuore sereno non prendi, o stolto, un sicuro riposo?»
È a questo punto che si inserisce una digressione sul significato simbolico delle pene infernali (III, 978-1023, trad. Canali). 


 Atque ea nimirum quaecumque Acherunte profundo
prodita sunt esse, in vita sunt omnia nobis.
Nec miser inpendens magnum timet aëre saxum
Tantalus, ut famast, cassa formidine torpens;
sed magis in vita divom metus urget inanis
mortalis casumque timent quem cuique ferat fors.
nec Tityon volucres ineunt Acherunte iacentem
nec quod sub magno scrutentur pectore quicquam
perpetuam aetatem possunt reperire profecto.
quam libet immani proiectu corporis exstet,
qui non sola novem dispessis iugera membris
optineat, sed qui terrai totius orbem,
non tamen aeternum poterit perferre dolorem
nec praebere cibum proprio de corpore semper.
sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem
quem volucres lacerant atque exest anxius angor
aut alia quavis scindunt cuppedine curae.
 Sisyphus in vita quoque nobis ante oculos est,
qui petere a populo fasces saevasque secures
imbibit et semper victus tristisque recedit.
nam petere imperium, quod inanest nec datur umquam,
atque in eo semper durum sufferre laborem,
hoc est adverso nixantem trudere monte saxum,
quod tamen summo iam vertice rusum 
volvitur et plani raptim petit aequora campi.
deinde animi ingratam naturam pascere semper
atque explere bonis rebus satiareque numquam,
quod faciunt nobis annorum tempora, circum
cum redeunt fetusque ferunt variosque lepores,
nec tamen explemur vitai fructibus umquam,
hoc, ut opinor, id est, aevo florente puellas
quod memorant laticem pertusum congerere in vas,
quod tamen expleri nulla ratione potestur.
Cerberus et Furiae iam vero et lucis egestas,
Tartarus horriferos eructans faucibus aestus!
qui neque sunt usquam nec possunt esse profecto;
sed metus in vita poenarum pro male factis
est insignibus insignis scelerisque luela,
carcer et horribilis de saxo iactus deorsum,
verbera carnifices robur pix lammina taedae;
quae tamen etsi absunt, at mens sibi conscia factis
praemetuens adhibet stimulos torretque flagellis,
 nec videt interea qui terminus esse malorum
possit nec quae sit poenarum denique finis,
atque eadem metuit magis haec ne in morte gravescant.
 Hic Acherusia fit stultorum denique vita.



Senz’alcun dubbio i tormenti, che si dice vi siano nel profondo Acheronte, sono in realtà tutti nella nostra vita.  Né Tantalo infelice, come si favoleggia, raggelato da un vano timore, teme l’enorme macigno che incombe sospeso nell’aria; ma piuttosto nella vita lo stolto timore degli dèi incalza i mortali che temono le sventure di cui sarà foriera a ognuno la sorte. Né gli uccelli penetrano in Tizio disteso nell’Acheronte, né di certo possono trovare entro il suo vasto petto qualcosa in cui frugare nell’eternità del tempo. Per quanto si estenda con l’immensa proporzione del corpo, e ricopra non solo nove iugeri con le membra divaricate, ma addirittura l’intera superficie dell’orbe terrestre, tuttavia non potrà sopportare un eterno dolore né offrire cibo in perpetuo dal proprio corpo. Ma Tizio è in noi, prostrato nell’amore, gli uccelli lo straziano, un angoscioso tormento lo divora, o per qualche altra passione lo fanno a brani gli affanni. Anche Sisifo è qui nella vita davanti ai nostri occhi, è colui che al pari d’un invasato chiede al popolo i fasci e le scuri, ed è sempre costretto a ritrarsi vinto e afflitto. Infatti anelare al potere che è vano, e non viene mai dato, e per esso patire di continuo una dura fatica, ciò è spingere con tutte le forze un macigno per l’erta di un monte, per poi vederlo di nuovo rotolare dalla vetta e raggiungere a precipizio la superficie della distesa pianura. Infine, pascere sempre l’ingrata natura dell’animo, ricolmarla di beni e non riuscire a sentirla mai, come ci suggeriscono le stagioni dell’anno quando ritornano ciclicamente e portano i frutti e le loro varie dolcezze, e tuttavia non ci saziano mai dei frutti della vita, questo, ritengo, è ciò che favoleggiano delle fanciulle nel fiore dell’età, intente a riempire d’acqua un’urna senza fondo, che mai per nessuna ragione potrà essere colmata. Cerbero poi e le Furie e la privazione della luce, e il Tartaro che erutta dalle fauci orribili vampe, non sono in nessun luogo, né certo possono esistere. Ma nella vita è il terrore delle pene per le malvagità compiute, crudelle per crudeli delitti, e l’espiazione della colpa, il carcere e il tremendo balzo giù dalla rupe, le frustate, i carnefici,le violenze, la pece, le lamine, le torce; e anche se tutto ciò è lontano, la mente consapevole dei misfatti rimordendo applica a sé quei tormenti, brucia sotto la sferza, e non vede intanto qual termine possa esserci a quei mali, né qual sia infine l’interruzione di quelle pene, e teme anzi che le medesime in morte si inaspriscano. Qui sulla terra s’avvera per gli stolti la vita dell’Inferno.

Nel brano è stata osservata una curata disposizione chiastica, per cui la dichiarazione allegorica razionalistica (vv. 978-979; 1023) racchiude al suo interno la trattazione del metus (divum e poenarum), che a sua volta incornicia la trattazione, tripartita, del motivo centrale, la cupido: a vv. 978-979 Identificazione tra Acheruns profundus e vita nostra b vv. 980-983 Metus (metus divum): Tantalo c vv. 984-1010 Cupido: 1) vv. 984-994 amor (cupido amoris): Tizio 2) vv. 995-1002 ambitio (cupido honorum): Sisifo 3) vv. 1003-1010 avarities (cupido rerum): Danaidi b vv. 1011-1022 Metus (metus poenarum): Cerbero, Furie, Tartaro a v. 1023 Identificazione tra Acheruns profundus e vita nostra