L’elogio di Epicuro, che ha rivelato agli uomini la verità sulla natura, mettendo in fuga i timori degli animi, ed in particolare il timore degli dèi e dal timore della morte, apre il libro III . Sede della sensibilità e dell’intelligenza è l’animus («spirito», potremmo dire); ad esso è sottoposta l’anima, diffusa per tutto il corpo, mediante la quale vengono percepite le sensazioni fisiche. Entrambi hanno consistenza materiale – ma gli atomi che le compongono hanno una diversa qualità – e sono mortali, sicché risultano vane le paure degli uomini di un castigo dopo la morte: non esistono i grandi “peccatori” del mito (come Tantalo e Sisifo), puniti nell’inferno pagano. Di conseguenza, la morte non è da temere, perché, quando ci coglie, noi non siamo più (III, 830: «Nulla è per noi la morte e per niente ci riguarda»): non bisogna temere la morte, che colpisce tutti (re, generali e lo stesso Epicuro), né avere disgusto per la vita, per quell’insoddisfazione che spinge a fuggire da se stessi. Piuttosto, bisogna sforzarsi di comprendere la natura delle cose (III, 1072: naturam... cognoscere rerum), per capire le ragioni del proprio disagio esistenziale.
III 31-40; 55-93
Et quoniam docui, cunctarum exordia rerum
qualia sint et quam variis distantia formis
sponte sua volitent aeterno percita motu
quove modo possint res ex his quaeque creari,
35hasce secundum res animi natura videtur
atque animae claranda meis iam versibus esse
et metus ille foras praeceps Acheruntis agendus,
funditus humanam qui vitam turbat ab imo
omnia suffundens mortis nigrore neque ullam
40esse voluptatem liquidam puramque relinquit.
Quo magis in dubiis hominem spectare periclis
convenit adversisque in rebus noscere qui sit;
nam verae voces tum demum pectore ab imo
eliciuntur ‹et› eripitur persona, manet res.
Denique avarities et honorum caeca cupido
60quae miseros homines cogunt transcendere finis
iuris et interdum socios scelerum atque ministros
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes, haec vulnera vitae
non minimam partem mortis formidine aluntur.
65Turpis enim ferme contemptus et acris egestas
semota ab dulci vita stabilique videtur
et quasi iam leti portas cunctarier ante;
unde homines dum se falso terrore coacti
effugisse volunt longe longeque remosse,
70sanguine civili res conflant divitiasque
conduplicant avidi, caedem caede accumulantes;
crudeles gaudent in tristi funere fratris
et consanguineum mensas odere timentque.
Consimili ratione ab eodem saepe timore
75macerat invidia ante oculos illum esse potentem,
illum aspectari, claro qui incedit honore,
ipsi se in tenebris volvi caenoque queruntur.
Intereunt partim statuarum et nominis ergo.
Et saepe usque adeo, mortis formidine, vitae
80percipit humanos odium lucisque videndae,
ut sibi consciscant maerenti pectore letum
obliti fontem curarum hunc esse timorem,
hunc vexare pudorem, hunc vincula amicitiai
rumpere et e summa pietatem evertere sede.
85Nam iam saepe homines patriam carosque parentis
prodiderunt, vitare Acherusia templa petentes.
Nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
interdum, nilo quae sunt metuenda magis quam
90quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.
Analisi dei versi:
ragione contro paura: il verso 31 si apre con una formula di passaggio tipicamente lucreziana e propria del genere del poema didascalico, et quoniam docui, che introduce una sintesi dei contenuti del libro precedente, dedicato alla teoria dell’aggregazione e disgregazione dei corpi.
Nei due versi successivi Lucrezio anticipa il nuovo argomento, la teoria dell’anima, con una variatio del soggetto ottenuta attraverso l’uso della perifrastica passiva (animi natura atque animae claranda esse), che dà l’idea dell’urgenza didattica avvertita dal fedele ed entusiasta seguace di Epicuro. Significativo è l’uso del verbo clarare che, oltre ad indicare la ricerca, lo sforzo di chiarezza, perseguito non senza difficoltà e con l’orgoglio di sperimentare una nuova strada, quella della poesia filosofica, introduce una prima immagine di luce, la luce della ragione e della poesia, contrapposta all’oscurità dell’ignoranza, secondo quell’antitesi luce-tenebre, vita-morte, che permea tutto il De rerum natura.
L’espressione claranda meis … versibus esse suona inoltre come un’implicita dichiarazione di poetica: i versi sono il mezzo per il fine, la poesia diventa strumento di verità; scienza filosofica e poesia si integrano, la seconda necessaria alla prima.
Paura della morte,infelicità umana L’ispirazione del poeta non è solo razionale, è anche passionale ed è questa che lo induce, a scapito dello sviluppo logico e ordinato dell’argomentazione, ad un’insistenza quasi ossessiva sulla paura della morte, la principale responsabile, insieme alla quella degli dei, dei profondi turbamenti della vita umana, stando ai dettami epicurei. Questa insistenza trova riscontro nei numerosi sintagmi sinonimici che Lucrezio “sparge” nei suoi versi per indicare la paura della morte: metus Acheruntis, mortis nigrore, Tartara leti (altro pleonasmo), mortis formidine (usato due volte), leti portas, falso terrore, eodem timore, Acherusia templa (usata anche nel I libro), terrorem animi; inoltre quattro volte è usata la parola tenebra (vv. 77, 88, 90, 91).
Nei versi 37-40 colpisce soprattutto la concretezza delle immagini usate, qualità tipica del linguaggio lucreziano, che tende a dare un rilievo fisico, tangibile, visibile a concetti astratti - in questo caso quello della morte - visualizzandoli, quasi a volerli rendere “fisicamente” cancellabili nella mente del destinatario. La forza visiva del linguaggio lucreziano emerge in espressioni quali foras praeceps agendus (v. 37) riferito a metus Acheruntis, o suffundens omnia nigrore (v. 39) che oggettivizza la morte in una sorta di liquido che si sparge sulle cose; a questa immagine si richiama, nel verso successivo, l’aggettivo liquidam riferito a voluptatem, ad indicare la limpidezza, la chiarezza, la serenità della gioia, contrapposta al torbido e angoscioso mortis nigrore.
Da notare anche la ridondanza e il disordine del v. 38, dovuti all’uso dell’iperbato e dell’anastrofe (funditus … ab imo in rilievo ai due estremi del verso, qui con funzione di soggetto interposto a metà verso tra humanam e vitam; funditus è ripreso da suffundens del verso successivo), che possono essere sì imputabili alla mancata revisione del poema, ma qui sembrano tradurre sintatticamente il disordine, l’abisso interiore provocato nell’uomo dal timore della morte.
Degradazione dell'animo:rimedi? i vv.70-73, in cui il poeta insiste sull’argomento dipingendo un quadro ripugnante della degradazione cui può arrivare l’uomo per sfuggire al contemptus e all’egestas associati alla morte: studiata è la collocazione dei due infiniti perfetti effugisse e remosse collegati dalla ripresa dell’avverbio longe (su questo tema della fuga da se stessi e dalle proprie inquietudini, del commutare locum, che sarà ripreso da Orazio e da Seneca, il poeta ritorna nel finale del libro); il poliptoto caedem caede, con cui prosegue l’insistente allitterazione della /c/ che dal verso precedente (conflant) si prolunga fino ai vv. 72 (crudeles) e 73 (consanguineum); studiatissima anche la collocazione e la scelta delle parole di tutto il verso 71, iconico nel rendere l’immagine dell’ammassarsi di ricchezze e di stragi attraverso i due verbi sinonimici, conduplicant e accumulantes in risalto per l’insolita lunghezza alle due estremità del verso. Un’ennesima ridondanza si crea con conflant del verso precedente, allitterante con conduplicant: riaffiora ancora una volta la cosiddetta abundantia lucreziana.
La pausa forte al v. 71 segna il passaggio al distico finale di questo gruppo di versi, cui sono affidate le immagini della massima crudeltà e brutalità raggiunte persino nella vita privata, nei confronti dei propri cari: qui sono la pesantezza del ritmo spondaico e la struttura fonica del v.72 con le insistenti allitterazioni (crudeles … tristi funere fratris) ad enfatizzare la tristezza del contenuto. L’uomo, perso ogni sentimento di umana pietà e solidarietà, si consuma nell’invidia dei potenti - spicca l’antitesi verticale tra illum e ipsi, entrambi in incipit rispettivamente al v.76 e 77 - fino a cercare paradossalmente nel suicidio quella stessa morte tanto temuta.
In tutto questo drammatico, patetico scenario la presenza dell’autore è rivelata da espressioni, soprattutto aggettivi valutativi, che esprimono sì il punto di vista dell’intellettuale “illuminato” dalla dottrina del Maestro, ma tradiscono anche la pietà del poeta (miseri del v. 51, miseros homines del v. 60, marenti pectore, v. 81), la compassione verso il triste e tragico spettacolo di un’umanità smarrita e sofferente, alle prese con la fatica di vivere, da cui nessuno è immune.
Emerge una intensa capacità di analisi dell’animo umano, propria di chi, a differenza di quei miseri mortali obliti, conosce le leggi della natura (rerum natura : da qui il titolo) e sa che la causa del loro malessere è la subdola (suadet del v. 84) paura della morte, quasi personificata - come suggerisce anche l’uso del complemento d’agente ab eodem timore del v. 74 - che li costringe ad affannarsi (praestante labore, v.62), a macerarsi (macerat, v. 75), a rotolarsi nel fango e nelle tenebre (in tenebris volvi caenoque) di un inferno terrestre. Sì, perché, come il poeta dichiarerà nei vv. 978-1023, la vita dell’Inferno per gli stolti si avvera sulla terra (Hic Acherusia fit stultorum denique vita) e le pene, i castighi infernali che si immaginano nell’Acheronte in realtà sono nella nostra vita, sono rappresentazioni allegoriche dei tormenti e delle angosce dell’animo umano (Atque ea nimirum quaecumque Acheronte profondo/prodiga sunt esse, in vita sunt omnia nobis): il timore degli dei, la passione amorosa, l’ambizione, l’avidità. Ritorna anche l’immagine delle tenebre, ripresa in vitae odium lucisque videndae, che crea una paradossale antitesi con mortis formidine del verso precedente.
Nei vv. 82-84 sono ribaditi e riassunti gli effetti di questo timore (hunc timorem) in tre oggettive dipendenti da obliti, dove l’anafora di hunc enfatizza l’appassionato discorso polemico del poeta: fonte di angosce, distruzione del senso del pudore, rottura dei vincoli dell’amicizia. L’ultima conseguenza è espressa con una variazione della struttura sintattica, per cui timor da soggetto delle proposizioni infinitive diventa soggetto sottinteso del verbo suadet, acquistando maggiore risalto: si tratta della perdita della pietas che, come chiarisce il passo successivo introdotto da nam, sfocia nel tradimento della patria e dei genitori. Particolarmente solenni questi due versi 85-86, cui l’uso del perfetto gnomico prodiderunt conferisce un tono solenne, rafforzato dalle allitterazioni (/p/ e /t/) e dall’enjambement.
Segue la famosa similitudine tra i timori degli uomini e quelli dei fanciulli spaventati dalle tenebre, a sottolineare le illusorie e inutili paure che angosciano l’esistenza umana: spicca in studiato rilievo caecis alla fine del v. 87, separato in enjambement da in tenebris, che richiama la caeca cupido del v.59 (questi esametri si ritrovano identici nel secondo libro). Il poeta insiste sulla metafora dell’assenza di luce, come conferma anche la ripetizione a breve distanza del termine tenebrae (v. 77, 88, 90, 91).
La formula dei vv. 91-93 (usata già nel I libro) conclude (igitur), ricollegandosi ai vv. 36 sgg. (anche nella ripresa dell’idea di dovere con necessest), e ribadisce lo scopo dei versi: discutere - ancora un’espressione dal forte impatto visivo come foras agere del v. 37 - hunc terrorem (riprende hunc timorem del v. 82) tenebrasque con la ratio, ossia la descrizione e lo studio della natura, espressa nell’efficace endiadi naturae species ratioque, centrale nell’ideologia che sorregge il poema. Ai lucida tela diei (v. 92) si sostituiscono i lucida carmina, i limpidi versi (I, 933-934), le vere armi del poeta per combattere la sua battaglia contro l’ignoranza e la superstizione e offrire, addolcita attraverso la poesia, una vera e propria medicina doloris per guarire i vulnera vitae.
Analisi dei versi:
ragione contro paura: il verso 31 si apre con una formula di passaggio tipicamente lucreziana e propria del genere del poema didascalico, et quoniam docui, che introduce una sintesi dei contenuti del libro precedente, dedicato alla teoria dell’aggregazione e disgregazione dei corpi.
Nei due versi successivi Lucrezio anticipa il nuovo argomento, la teoria dell’anima, con una variatio del soggetto ottenuta attraverso l’uso della perifrastica passiva (animi natura atque animae claranda esse), che dà l’idea dell’urgenza didattica avvertita dal fedele ed entusiasta seguace di Epicuro. Significativo è l’uso del verbo clarare che, oltre ad indicare la ricerca, lo sforzo di chiarezza, perseguito non senza difficoltà e con l’orgoglio di sperimentare una nuova strada, quella della poesia filosofica, introduce una prima immagine di luce, la luce della ragione e della poesia, contrapposta all’oscurità dell’ignoranza, secondo quell’antitesi luce-tenebre, vita-morte, che permea tutto il De rerum natura.
L’espressione claranda meis … versibus esse suona inoltre come un’implicita dichiarazione di poetica: i versi sono il mezzo per il fine, la poesia diventa strumento di verità; scienza filosofica e poesia si integrano, la seconda necessaria alla prima.
Paura della morte,infelicità umana L’ispirazione del poeta non è solo razionale, è anche passionale ed è questa che lo induce, a scapito dello sviluppo logico e ordinato dell’argomentazione, ad un’insistenza quasi ossessiva sulla paura della morte, la principale responsabile, insieme alla quella degli dei, dei profondi turbamenti della vita umana, stando ai dettami epicurei. Questa insistenza trova riscontro nei numerosi sintagmi sinonimici che Lucrezio “sparge” nei suoi versi per indicare la paura della morte: metus Acheruntis, mortis nigrore, Tartara leti (altro pleonasmo), mortis formidine (usato due volte), leti portas, falso terrore, eodem timore, Acherusia templa (usata anche nel I libro), terrorem animi; inoltre quattro volte è usata la parola tenebra (vv. 77, 88, 90, 91).
Nei versi 37-40 colpisce soprattutto la concretezza delle immagini usate, qualità tipica del linguaggio lucreziano, che tende a dare un rilievo fisico, tangibile, visibile a concetti astratti - in questo caso quello della morte - visualizzandoli, quasi a volerli rendere “fisicamente” cancellabili nella mente del destinatario. La forza visiva del linguaggio lucreziano emerge in espressioni quali foras praeceps agendus (v. 37) riferito a metus Acheruntis, o suffundens omnia nigrore (v. 39) che oggettivizza la morte in una sorta di liquido che si sparge sulle cose; a questa immagine si richiama, nel verso successivo, l’aggettivo liquidam riferito a voluptatem, ad indicare la limpidezza, la chiarezza, la serenità della gioia, contrapposta al torbido e angoscioso mortis nigrore.
Da notare anche la ridondanza e il disordine del v. 38, dovuti all’uso dell’iperbato e dell’anastrofe (funditus … ab imo in rilievo ai due estremi del verso, qui con funzione di soggetto interposto a metà verso tra humanam e vitam; funditus è ripreso da suffundens del verso successivo), che possono essere sì imputabili alla mancata revisione del poema, ma qui sembrano tradurre sintatticamente il disordine, l’abisso interiore provocato nell’uomo dal timore della morte.
Degradazione dell'animo:rimedi? i vv.70-73, in cui il poeta insiste sull’argomento dipingendo un quadro ripugnante della degradazione cui può arrivare l’uomo per sfuggire al contemptus e all’egestas associati alla morte: studiata è la collocazione dei due infiniti perfetti effugisse e remosse collegati dalla ripresa dell’avverbio longe (su questo tema della fuga da se stessi e dalle proprie inquietudini, del commutare locum, che sarà ripreso da Orazio e da Seneca, il poeta ritorna nel finale del libro); il poliptoto caedem caede, con cui prosegue l’insistente allitterazione della /c/ che dal verso precedente (conflant) si prolunga fino ai vv. 72 (crudeles) e 73 (consanguineum); studiatissima anche la collocazione e la scelta delle parole di tutto il verso 71, iconico nel rendere l’immagine dell’ammassarsi di ricchezze e di stragi attraverso i due verbi sinonimici, conduplicant e accumulantes in risalto per l’insolita lunghezza alle due estremità del verso. Un’ennesima ridondanza si crea con conflant del verso precedente, allitterante con conduplicant: riaffiora ancora una volta la cosiddetta abundantia lucreziana.
La pausa forte al v. 71 segna il passaggio al distico finale di questo gruppo di versi, cui sono affidate le immagini della massima crudeltà e brutalità raggiunte persino nella vita privata, nei confronti dei propri cari: qui sono la pesantezza del ritmo spondaico e la struttura fonica del v.72 con le insistenti allitterazioni (crudeles … tristi funere fratris) ad enfatizzare la tristezza del contenuto. L’uomo, perso ogni sentimento di umana pietà e solidarietà, si consuma nell’invidia dei potenti - spicca l’antitesi verticale tra illum e ipsi, entrambi in incipit rispettivamente al v.76 e 77 - fino a cercare paradossalmente nel suicidio quella stessa morte tanto temuta.
In tutto questo drammatico, patetico scenario la presenza dell’autore è rivelata da espressioni, soprattutto aggettivi valutativi, che esprimono sì il punto di vista dell’intellettuale “illuminato” dalla dottrina del Maestro, ma tradiscono anche la pietà del poeta (miseri del v. 51, miseros homines del v. 60, marenti pectore, v. 81), la compassione verso il triste e tragico spettacolo di un’umanità smarrita e sofferente, alle prese con la fatica di vivere, da cui nessuno è immune.
Emerge una intensa capacità di analisi dell’animo umano, propria di chi, a differenza di quei miseri mortali obliti, conosce le leggi della natura (rerum natura : da qui il titolo) e sa che la causa del loro malessere è la subdola (suadet del v. 84) paura della morte, quasi personificata - come suggerisce anche l’uso del complemento d’agente ab eodem timore del v. 74 - che li costringe ad affannarsi (praestante labore, v.62), a macerarsi (macerat, v. 75), a rotolarsi nel fango e nelle tenebre (in tenebris volvi caenoque) di un inferno terrestre. Sì, perché, come il poeta dichiarerà nei vv. 978-1023, la vita dell’Inferno per gli stolti si avvera sulla terra (Hic Acherusia fit stultorum denique vita) e le pene, i castighi infernali che si immaginano nell’Acheronte in realtà sono nella nostra vita, sono rappresentazioni allegoriche dei tormenti e delle angosce dell’animo umano (Atque ea nimirum quaecumque Acheronte profondo/prodiga sunt esse, in vita sunt omnia nobis): il timore degli dei, la passione amorosa, l’ambizione, l’avidità. Ritorna anche l’immagine delle tenebre, ripresa in vitae odium lucisque videndae, che crea una paradossale antitesi con mortis formidine del verso precedente.
Nei vv. 82-84 sono ribaditi e riassunti gli effetti di questo timore (hunc timorem) in tre oggettive dipendenti da obliti, dove l’anafora di hunc enfatizza l’appassionato discorso polemico del poeta: fonte di angosce, distruzione del senso del pudore, rottura dei vincoli dell’amicizia. L’ultima conseguenza è espressa con una variazione della struttura sintattica, per cui timor da soggetto delle proposizioni infinitive diventa soggetto sottinteso del verbo suadet, acquistando maggiore risalto: si tratta della perdita della pietas che, come chiarisce il passo successivo introdotto da nam, sfocia nel tradimento della patria e dei genitori. Particolarmente solenni questi due versi 85-86, cui l’uso del perfetto gnomico prodiderunt conferisce un tono solenne, rafforzato dalle allitterazioni (/p/ e /t/) e dall’enjambement.
Segue la famosa similitudine tra i timori degli uomini e quelli dei fanciulli spaventati dalle tenebre, a sottolineare le illusorie e inutili paure che angosciano l’esistenza umana: spicca in studiato rilievo caecis alla fine del v. 87, separato in enjambement da in tenebris, che richiama la caeca cupido del v.59 (questi esametri si ritrovano identici nel secondo libro). Il poeta insiste sulla metafora dell’assenza di luce, come conferma anche la ripetizione a breve distanza del termine tenebrae (v. 77, 88, 90, 91).
La formula dei vv. 91-93 (usata già nel I libro) conclude (igitur), ricollegandosi ai vv. 36 sgg. (anche nella ripresa dell’idea di dovere con necessest), e ribadisce lo scopo dei versi: discutere - ancora un’espressione dal forte impatto visivo come foras agere del v. 37 - hunc terrorem (riprende hunc timorem del v. 82) tenebrasque con la ratio, ossia la descrizione e lo studio della natura, espressa nell’efficace endiadi naturae species ratioque, centrale nell’ideologia che sorregge il poema. Ai lucida tela diei (v. 92) si sostituiscono i lucida carmina, i limpidi versi (I, 933-934), le vere armi del poeta per combattere la sua battaglia contro l’ignoranza e la superstizione e offrire, addolcita attraverso la poesia, una vera e propria medicina doloris per guarire i vulnera vitae.
Raffaella Di Meglio ,letteratour
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