
È a questo punto che si inserisce una digressione sul significato simbolico delle pene infernali (III, 978-1023, trad. Canali).
Atque ea nimirum quaecumque Acherunte profundo
prodita sunt esse, in vita sunt omnia nobis.
Nec miser inpendens magnum timet aëre saxum
Tantalus, ut famast, cassa formidine torpens;
sed magis in vita divom metus urget inanis
mortalis casumque timent quem cuique ferat fors.
nec Tityon volucres ineunt Acherunte iacentem
nec quod sub magno scrutentur pectore quicquam
perpetuam aetatem possunt reperire profecto.
quam libet immani proiectu corporis exstet,
qui non sola novem dispessis iugera membris
optineat, sed qui terrai totius orbem,
non tamen aeternum poterit perferre dolorem
nec praebere cibum proprio de corpore semper.
sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem
quem volucres lacerant atque exest anxius angor
aut alia quavis scindunt cuppedine curae.
Sisyphus in vita quoque nobis ante oculos est,
qui petere a populo fasces saevasque secures
imbibit et semper victus tristisque recedit.
nam petere imperium, quod inanest nec datur umquam,
atque in eo semper durum sufferre laborem,
hoc est adverso nixantem trudere monte saxum,
quod tamen
deinde animi ingratam naturam pascere semper
atque explere bonis rebus satiareque numquam,
quod faciunt nobis annorum tempora, circum
cum redeunt fetusque ferunt variosque lepores,
nec tamen explemur vitai fructibus umquam,
hoc, ut opinor, id est, aevo florente puellas
quod memorant laticem pertusum congerere in vas,
quod tamen expleri nulla ratione potestur.
Cerberus et Furiae iam vero et lucis egestas,
Tartarus horriferos eructans faucibus aestus!
qui neque sunt usquam nec possunt esse profecto;
sed metus in vita poenarum pro male factis
est insignibus insignis scelerisque luela,
carcer et horribilis de saxo iactus deorsum,
verbera carnifices robur pix lammina taedae;
quae tamen etsi absunt, at mens sibi conscia factis
praemetuens adhibet stimulos torretque flagellis,
nec videt interea qui terminus esse malorum
possit nec quae sit poenarum denique finis,
atque eadem metuit magis haec ne in morte gravescant.
Hic Acherusia fit stultorum denique vita.
Senz’alcun dubbio i tormenti, che si dice vi siano nel profondo Acheronte, sono in realtà tutti nella nostra vita. Né Tantalo infelice, come si favoleggia, raggelato da un vano timore, teme l’enorme macigno che incombe sospeso nell’aria; ma piuttosto nella vita lo stolto timore degli dèi incalza i mortali che temono le sventure di cui sarà foriera a ognuno la sorte. Né gli uccelli penetrano in Tizio disteso nell’Acheronte, né di certo possono trovare entro il suo vasto petto qualcosa in cui frugare nell’eternità del tempo. Per quanto si estenda con l’immensa proporzione del corpo, e ricopra non solo nove iugeri con le membra divaricate, ma addirittura l’intera superficie dell’orbe terrestre, tuttavia non potrà sopportare un eterno dolore né offrire cibo in perpetuo dal proprio corpo. Ma Tizio è in noi, prostrato nell’amore, gli uccelli lo straziano, un angoscioso tormento lo divora, o per qualche altra passione lo fanno a brani gli affanni. Anche Sisifo è qui nella vita davanti ai nostri occhi, è colui che al pari d’un invasato chiede al popolo i fasci e le scuri, ed è sempre costretto a ritrarsi vinto e afflitto. Infatti anelare al potere che è vano, e non viene mai dato, e per esso patire di continuo una dura fatica, ciò è spingere con tutte le forze un macigno per l’erta di un monte, per poi vederlo di nuovo rotolare dalla vetta e raggiungere a precipizio la superficie della distesa pianura. Infine, pascere sempre l’ingrata natura dell’animo, ricolmarla di beni e non riuscire a sentirla mai, come ci suggeriscono le stagioni dell’anno quando ritornano ciclicamente e portano i frutti e le loro varie dolcezze, e tuttavia non ci saziano mai dei frutti della vita, questo, ritengo, è ciò che favoleggiano delle fanciulle nel fiore dell’età, intente a riempire d’acqua un’urna senza fondo, che mai per nessuna ragione potrà essere colmata. Cerbero poi e le Furie e la privazione della luce, e il Tartaro che erutta dalle fauci orribili vampe, non sono in nessun luogo, né certo possono esistere. Ma nella vita è il terrore delle pene per le malvagità compiute, crudelle per crudeli delitti, e l’espiazione della colpa, il carcere e il tremendo balzo giù dalla rupe, le frustate, i carnefici,le violenze, la pece, le lamine, le torce; e anche se tutto ciò è lontano, la mente consapevole dei misfatti rimordendo applica a sé quei tormenti, brucia sotto la sferza, e non vede intanto qual termine possa esserci a quei mali, né qual sia infine l’interruzione di quelle pene, e teme anzi che le medesime in morte si inaspriscano. Qui sulla terra s’avvera per gli stolti la vita dell’Inferno.
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