domenica 4 novembre 2018

lucrezio


 il poeta




festival di filosofia, modena 2017

Lucrezio, uomo romano del I secolo a.C., ambisce a descrivere ogni aspetto della vita del mondo e dell'uomo e di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea guidato dal desiderio di liberare gli uomini dall'infelicità dovuta alle passioni e alle paure. La tensione dell'autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del suo lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale nella quale egli crede profondamente. (Gian Biagio Conte)
                                                                                               
lucrezio e l'epicureismo


lettura teatrale




piano dell'opera




De Rerum Natura


L'opera, un poema didascalico, presenta sei libri secondo uno schema di tre diadi:

 I-II      La Fisica
III-IV   L'antropologia
V-VI    La cosmologia



Per ciascun libro si distinguono un proemio (di norma un elogio di Epicuro) e un finale che contiene l'esposizione di un tema specifico che acquista autonomo rilievo.
in particolare, i finali del III libro (la paura della morte), del IV (il sesso e l'amore), del V ( la storia dell'umanità) e il VI (la peste di Atene) formano quasi dei poemetti a sé stanti.

SCHEMA GENERALE

libro         PROEMIO                          TEMA                                        FINALE

I               Inno aVenere/                     Gli Atomi                               L'infinità dell'universo
                 Elogio Epicuro     

II             Elogio della serenità          il Clinamen                            Pluralità e caducità dei mondi
                  del sapiente

III            Elogio Epicuro                    l'anima                                 La paura della morte

IV           Dichiarazione di                  le sensazioni                          il sesso e l'amore
                     poetica

V             Elogio Epicuro                   terra, cielo e corpi                 storia dell'umanità
                                                                  sospesi

VI           Elogio di Atene e di          fenomeni meteorologici           La peste di Atene
                 Epicuro                               e naturali


inno a Venere



introduzione

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis.
                                                   5
Te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
Nam simul ac species patefactast verna diei                                              10
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta                                          
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore                                                15
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.                               
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.                                           20


Progenitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei,
alma Venere, che sotto gli erranti astri del cielo vivifichi
il mare solcato da navi e la terra portatrice di messi,
poiché per opera tua ogni specie di esseri viventi
è concepita e, appena nata, vede la luce del sole.                                                         5
Te, o dea, te fuggono i venti, te le nubi del cielo
al tuo sopraggiungere, per te la terra ingegnosa
fa nascere fiori soavi, per te ride la superficie del mare
e, tornato sereno, il cielo brilla di un chiarore diffuso.
Infatti non appena si schiude l’aspetto primaverile del giorno                                    10
e, liberatosi, prende vigore il soffio fecondatore del favonio,
per primi gli uccelli dell’aria annunciano te ed il tuo arrivo,
o dea, percossi nel cuore dalla tua potenza.  
Poi le fiere e gli armenti saltellano qua e là per i pascoli rigogliosi
ed attraversano i fiumi vorticosi: così ogni animale,                                                   15
preso dal tuo fascino, ti segue avidamente dove tu voglia condurlo.
Infine per mari e monti e per fiumi che travolgono
e per le frondose dimore degli uccelli e i campi verdeggianti,
incutendo a tutti nel petto un dolce desiderio d’amare,
fai in modo che essi, bramosamente, propaghino specie per specie le generazioni.   20

sabato 3 novembre 2018

elogio di Epicuro


Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra,
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
irritat animi virtutem effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
ergo vivida vis animi pervicit, et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
quanam sit ratione atque alte terminus haerens.
quare religio pedibus subiecta vicissim
obteritur, nos exaequat victoria caelo.

Mentre la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile aspetto, incombendo dall’alto sugli uomini, per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro (obsistere contra): non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né il minaccioso brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono il fiero valore dell’animo, così che volle infrangere (effringere) per primo le porte sbarrate dell’universo. E dunque trionfò la vivida forza del suo animo e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo, e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo, da cui riporta (refert) a noi vittorioso (victor) quel che può nascere, quel che non pnò, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria (victoria) ci eguaglia al cielo.

La filosofia di Epicuro

Epicuro, il salvatore (vv. 62-79): dopo l’invocazione rituale alla dea e il trapasso didascalico che annuncia il contenuto del primo libro (vv. 54-61), Lucrezio introduce l'elogio del filosofo benefattore del genere umano, oggetto di straordinaria venerazione che si avvicinava quasi a quella dovuta alla divinità nell’ambito della sua scuola. Il solenne elogio di Epicuro e della sua virtus, trionfante sulla gravis religio (etimologicamente connessa a religo, “vincolare”) ricalca la struttura tipica degli encomi dei grandi condottieri: a questo si deve l’uso di termini del linguaggio militare, come obsistere contra... effringere (che configurano l’azione del filosofo secondo le modalita di assedio di una città), refert (che indica l’atto del “riportare” una preda), victor e victoria. È la novità dell’azione di Epicuro che viene messa in rilievo (primum... primus) insieme alla lotta impari che ha coraggiosamente intrapreso (est... ausus). Con radicale capovolgimento la religio, terribile antagonista, che un tempo sovrastava minacciosamente gli uomini a caeli regionibus, mentre la humana vita giaceva in terris, ora, con la vittoria di Epicuro, deve subire la peggiore delle umiliazioni, schiacciata a terra sotto ai suoi piedi (v. 78: pedibus subiecta vicissim obteritur) mentre l’umanità è risollevata dal suo stato di prostrazione, fino a prospettare quasi un’identificazione con la divinità (v. 79: nos exaequat victoria caelo).

venerdì 2 novembre 2018

l'empietà della religio

Il tono gioioso con cui Lucrezio, attraverso l’elogio di Epicuro, proclama la vittoria dell’umanità sulla religio, si spegne subito dopo, nella triste vicenda diIfigenia, figlia del re Agamennone.

Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. Quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Cui simul infula virgineos circum data comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem.
Nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.
Tantum religio potuit suadere malorum.


Dal v. 80 Lucrezio si rivolge direttamente al lettore e lo invita a non temere l’empietà della dottrina epicurea. Secondo l’autore, non è l’epicureismo con la sua critica alla religiosità tradizionale a portare l’uomo verso azioni contrarie alla morale, ma è proprio la religio che ha condotto gli uomini a gesti di grave empietà. Tra tutti, Lucrezio sceglie l’esempio emblematico del sacrificio di Ifigenia, uccisa dal padre Agamennone per placare l’ira degli dei (nella fattispecie Artemide, inviperita con Agamennone per l’uccisione di una cerva) e assicurare una felice navigazione agli Achei verso Troia. Si deve notare come Lucrezio prediliga la versione del mito meno diffusa e meno edulcorata: non quella a lieto fine proposta da Euripide nell’Ifigenia in Aulide (e verisimilmente ripresa nel mondo latino da Nevio e da Ennio) secondo cui la dea sarebbe intervenuta all’ultimo momento per sostituire la ragazza, peraltro vittima consenziente, con una cerva, bensì quella raccontata da Eschilo nel prologo dell’Agamennone, in cui Ifigenia, presentata come una vittima muta e riluttante alla morte, è realmente sacrificata dal padre. Solo questa versione del mito, infatti, consentiva al poeta di mettere in luce come dalla pietà religiosa possano nascere azioni empie. Dell’episodio mitico, Lucrezio descrive solo i momenti precedenti il sacrificio, concentrandosi soprattutto sulla caratterizzazione psicologica del personaggio di Ifigenia: attraverso i suoi occhi vediamo il padre vicino all’altare, i sacerdoti che celano l’arma del sacrificio e gli occhi pieni di lacrime dei concittadini; poi la ragazza viene trascinata all’altare e fatta inginocchiare. La descrizione del sacrificio, come già in Eschilo, è taciuta, mentre una lapidaria sententia conclude e commenta l’intero episodio: “tantum religio potuit suadere malorum” (ovvero: “la religio poté persuadere a compiere così grandi mali”).

vertere e communicare




la difficoltà di trasferire l'oscuro e difficile pensiero del maestro è ben chiara nella mente di lucrezio. eppure l'intento e la volontà di esser caro all'amico e aiutarlo sono la spinta per affrontare la difficoltà di una comunicazione che ha per oggetto una oscura saggezza e si esprime con una lingua "altra" e a tratti priva di termini adatti.



Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta
difficile inlustrare Latinis versibus esse,
multa novis verbis praesertim cum sit agendum
propter egestatem linguae et rerum novitatem;
140sed tua me virtus tamen et sperata voluptas
suavis amicitiae quemvis efferre laborem
suadet et inducit noctes vigilare serenas
quaerentem dictis quibus et quo carmine demum
clara tuae possim praepandere lumina menti,
145res quibus occultas penitus convisere possis.
Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.

non sfugge al mio animo che è difficile illustrare in versi latini le oscure scoperte dei greci dal momento che  bisogna trattare con nuove parole a causa della povertà della lingua e la novità del pensiero; ma la tua virtù tuttavia e il piacere sperato della soave amicitia mi convince a affrontare qualunque fatica e mi spinge a vegliare durante le notti serene cercando con quali parole e con quale poesia possa diffondere nella tua mente la splendida luce, in quali modi tu possa scrutare fin in fondo le verità occulte. Dunque è necessario che spazzino via questo terrore dell'animo e le tenebre non i raggi del sole nè i brillanti dardi del giorno ma l'aspetto (la rivelazione)e la ratio (il pensiero ragionato) della natura


indistruttibilità degli atomi

I 540-550
Praeterea nisi materies aeterna fuisset,
antehac ad nilum penitus res quaeque redissent
de niloque renata forent quaecumque videmus.
At quoniam supra docui nil posse creari
de nilo neque quod genitum est ad nil revocari,
545esse immortali primordia corpore debent,
dissolvi quo quaeque supremo tempore possint,
materies ut suppeditet rebus reparandis.
Sunt igitur solida primordia simplicitate
nec ratione queunt alia servata per aevum
550ex infinito iam tempore res reparare.

se la materia non fosse stata eterna, già da lungo tempo le cose sarebbero tutte e del tutto ritornate nel nulla; e dal nulla di nuovo sarebbe nato tutto quel che vediamo. Nulla-l'ho dimostrato-può esser creato dal nulla nè, una volta nato, ritornare al nulla: dunque, di una sostanza immortale devono esser fatti gli elementi in cui ciascun corpo si risolverà nella sua ora suprema, se la materia deve bastare senza sosta al rinnovamento delle cose. i corpi primi sono nello stesso tempo semplici e solidi; altrimenti non avrebbero potuto conservarsi attraverso le molte ore trascorse per assicurare il rinnovamento delle cose, ben oltre le ferite inferte dal tempo.
Lucrezio, come avete potuto constatare dal passo appena riportato, asseriva che i corpi fossero aggregati di atomi separati dal vuoto.
Specificava inoltre che più vuoto essi contengono, più sono leggeri e distruttibili.
Tale teoria venne ripresa, nel 1704 nientemeno che da Isaac Newton(1642-1727).