venerdì 2 novembre 2018

la funzione della poesia


La poesia, strumento divulgativo per eccellenza 

I 921-950
Nunc age quod superest cognosce et clarius audi.
Nec me animi fallit quam sint obscura; sed acri
percussit thyrso laudis spes magna meum cor
et simul incussit suavem mi in pectus amorem
925musarum, quo nunc instinctus mente vigenti
avia Pieridum peragro loca nullius ante
trita solo. iuvat integros accedere fontis
atque haurire, iuvatque novos decerpere flores
insignemque meo capiti petere inde coronam
930unde prius nulli velarint tempora musae;
primum quod magnis doceo de rebus et artis
religionum animum nodis exsolvere pergo,
deinde quod obscura de re tam lucida pango
carmina, musaeo contingens cuncta lepore.
935Id quoque enim non ab nulla ratione videtur;
sed veluti pueris absinthia taetra medentes
cum dare conantur, prius oras pocula circum
contingunt mellis dulci flavoque liquore,
ut puerorum aetas improvida ludificetur
940labrorum tenus, interea perpotet amarum
absinthi laticem deceptaque non capiatur,
sed potius tali pacto recreata valescat,
sic ego nunc, quoniam haec ratio plerumque videtur
tristior esse quibus non est tractata, retroque
945vulgus abhorret ab hac, volvi tibi suaviloquenti
carmine Pierio rationem exponere nostram
et quasi musaeo dulci contingere melle,
si tibi forte animum tali ratione tenere
versibus in nostris possem, dum perspicis omnem
950naturam rerum qua constet compta figura.

Quasi a conclusione del primo libro, prima di dimostrare che la materia e lo spazio sono infiniti, e dunque infinito è l’universo, Lucrezio invita il suo lettore a prestare maggiore attenzione, ed insieme chiarisce la funzione pedagogica della sua poesia, rivendicando l’efficacia della sua creazione per rendere comprensibili i dettami spesso difficili della dottrina epicurea e conferire loro una certa solennità (I, 921-950; trad. Canali): 
IL MIELE DELLA POESIA 
 Ora apprendi ciò che resta e ascolta con maggior chiarezza. Non sfugge al mio animo quanto la materia sia oscura; ma una grande speranza di gloria ha percosso il mio cuore con la punta del tirso, e insieme m’ha infuso nel petto un soave amore delle Muse: e ora infiammato da esso percorro con mente impetuosa gli impervi luoghi delle Pieridi mai prima d’ora segnati da piede mortale. Mi inebria raggiungere le fonti intatte, e trarne sorsi, mi inebria spiccare nuovi fiori e trarne al mio capo una splendida ghirlanda di cui mai ad alcuno, prima di me, ombreggiarono le tempie le Muse; prima, perché di sommi argomenti ragiono e m’adopro a districare gli animi dai nodi di vane superstizioni, poi perché su un’oscura materia (obscura de re) compongo versi (carmina) così limpidi (lucida), aspergendo ogni cosa della leggiadria del canto (musaeo lepore). Infatti anche ciò non sembra senza ragione; come i medici, quando cercano di somministrare ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, affinché l’inconsapevole età dei fanciulli ne sia illusa fino alle labbra (labrorum tenus), e frattanto beva l’amaro succo d’assenzio, senza che l’inganno nuoccia, e anzi al contrario in tal modo rifiorisca e torni in salute; così io, poiché questa dottrina appare spesso troppo ostica a quanti non l’abbiano conosciuta a fondo, e il volgo ne rifugge e l’aborre, ho voluto esporla a te nel melodioso canto pierio, e quasi aspergerla del dolce miele delle Muse,se per caso in tal modo io potessi trattenere il tuo animo con questi miei versi, fin quando tu attinga l’intera natura dell’universo, e di quale forma essa consista e si adorni 


 L’ansia per la difficoltà dell’argomento sembra arginata dalla consapevolezza della propria missione filosofica, sottolineata dal motivo tradizionale, democriteo e platonico, del poeta “invasato”, in preda a “follia” creativa (vv. 922-930), e dall’altrettanto convenzionale menzione delle Muse («Pieridi», dal nome di una delle loro sedi favorite, la Pieria). La poesia, attraverso l’insidiosa grazia delle Muse renderà più gradevole il difficile messaggio della filosofia di Epicuro: i suoi «versi... limpidi» (vv. 933-934) sono chiamati, infatti, a comunicare l’«oscura materia» dottrinale. La “grazia incantevole”, il lepos che rende “leggiadro” il canto, è un concetto importante del pensiero lucreziano, qui come principio poetico (si ricordi il lepidum... libellum di Catullo, 1, 1 e la leptÒthj callimachea), altrove finalizzato a indicare il “fascino” cogente dell’amore cosmico, che agisce su tutte le creature (come in I, 15). Nello stesso tempo Lucrezio rivendica la propria originalità (vv. 925-930): nei contenuti, rispetto ai poeti precedenti, e nella forma, nei confronti di Epicuro stesso, che aveva scritto in prosa, proclamando orgogliosamente che egli percorre regioni impervie, mai prima percorse, e attinge a fonti intatte, con immagini che evocano il proemio degli Aitia di Callimaco («questo ti ordino: dove non passano i carri pesanti, là cammina. Che non dietro le impronte degli altri [tu spinga il tuo cocchio], né per la via larga, ma per sentieri [non calpestat]i pur se guiderai per strada più angusta», fr. 1 Pfeiffer, vv. 25-28, trad. D’Alessio), forse mediate attraverso il proemio del VII libro degli Annali enniani («Sull’argomento scrissero altri in versi con cui una volta cantavano i Fauni e i vati, poiché né [alcuno era salito sui] colli delle Muse, né alcuno prima di me vi fu che fosse amante del sapere poetico», trad. Traglia). La dichiarazione programmatica circa la funzione della poesia ai versi 933-934 viene poi illustrata mediante un efficace paragone (vv. 935-950) di derivazione platonica (Leggi, 659e): alla stregua di un medico, che cosparge di miele il bordo della tazza che contiene una medicina amara, ma necessaria alla guarigione del giovane malato, Lucrezio “somministra” a Memmio (e ai suoi lettori) gli insegnamenti salvifici di Epicuro, nella veste di un godibile componimento poetico. La poesia ha dunque una funzione precisa e ben delimitata di piacevole “ammaestramento”, ulteriormente precisata dall’espressione «fino alle labbra» (v. 940): l’inganno operato sull’ “inconsapevole fanciullo”– immagine del destinatario dell’opera – si ferma alle labbra, cui il miele fa sembrar dolce l’assenzio; e come il miele anche la poesia lucreziana svolge la sua funzione soltanto a livello superficiale, tenendo avvinto il lettore all’insegnamento filosofico con l’armonia dei versi, dei ritmi e delle immagini, mentre a penetrare in profondità è l’insegnamento benefico (ma "amaro", come l’assenzio) di Epicuro. Se ne sarebbe ricordato Tasso, in apertura della Gerusalemme liberata (I, st. 3): «così a l’egro fanciul porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso: / succhi amari ingannato intanto ei beve, / e da l’inganno suo vita riceve». Lo stile poetico, l’agilità delle forme espressive, la copiosità delle osservazioni umane, alcune analogie con il lessico di Catullo denunciano una qualche influenza del contemporaneo movimento neoterico, sebbene nel complesso la poesia lucreziana sia chiaramente forgiata sul modello dell’epica latina arcaica (Ennio in particolare), rivoluzionata però nei contenuti. Lucrezio, cioè, compone un poema nello stile epico della poesia tradizionale, grandioso nel disegno complessivo e solenne nella sua autentica ispirazione “religiosa”, ma innovativo in quanto portavoce di una “nuova” filosofia – la quale, tra l’altro, suggerisce un radicale mutamento nello stile di vita e nella condotta pubblica – che Lucrezio si sforza di far penetrare nella classe dirigente romana.

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