venerdì 2 novembre 2018

l'empietà della religio

Il tono gioioso con cui Lucrezio, attraverso l’elogio di Epicuro, proclama la vittoria dell’umanità sulla religio, si spegne subito dopo, nella triste vicenda diIfigenia, figlia del re Agamennone.

Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. Quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Cui simul infula virgineos circum data comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem.
Nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.
Tantum religio potuit suadere malorum.


Dal v. 80 Lucrezio si rivolge direttamente al lettore e lo invita a non temere l’empietà della dottrina epicurea. Secondo l’autore, non è l’epicureismo con la sua critica alla religiosità tradizionale a portare l’uomo verso azioni contrarie alla morale, ma è proprio la religio che ha condotto gli uomini a gesti di grave empietà. Tra tutti, Lucrezio sceglie l’esempio emblematico del sacrificio di Ifigenia, uccisa dal padre Agamennone per placare l’ira degli dei (nella fattispecie Artemide, inviperita con Agamennone per l’uccisione di una cerva) e assicurare una felice navigazione agli Achei verso Troia. Si deve notare come Lucrezio prediliga la versione del mito meno diffusa e meno edulcorata: non quella a lieto fine proposta da Euripide nell’Ifigenia in Aulide (e verisimilmente ripresa nel mondo latino da Nevio e da Ennio) secondo cui la dea sarebbe intervenuta all’ultimo momento per sostituire la ragazza, peraltro vittima consenziente, con una cerva, bensì quella raccontata da Eschilo nel prologo dell’Agamennone, in cui Ifigenia, presentata come una vittima muta e riluttante alla morte, è realmente sacrificata dal padre. Solo questa versione del mito, infatti, consentiva al poeta di mettere in luce come dalla pietà religiosa possano nascere azioni empie. Dell’episodio mitico, Lucrezio descrive solo i momenti precedenti il sacrificio, concentrandosi soprattutto sulla caratterizzazione psicologica del personaggio di Ifigenia: attraverso i suoi occhi vediamo il padre vicino all’altare, i sacerdoti che celano l’arma del sacrificio e gli occhi pieni di lacrime dei concittadini; poi la ragazza viene trascinata all’altare e fatta inginocchiare. La descrizione del sacrificio, come già in Eschilo, è taciuta, mentre una lapidaria sententia conclude e commenta l’intero episodio: “tantum religio potuit suadere malorum” (ovvero: “la religio poté persuadere a compiere così grandi mali”).

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