giovedì 1 novembre 2018

L'umanità secondo la sapienza epicurea





L'affannarsi degli uomini alla ricerca del piacere, della ricchezza e del potere risulta esser una meschinità agli occhi del poeta epicureo. la ricchezza infatti non può assicurare la felicità e il potere non può che renderci schiavi anch'esso delle nostre paure. Solo la filosofia con la ragione e la conoscenza della natura può determinare la liberazione dalle paure e delle angosce. Lucrezio rinnova il tema della svalutazione delle ricchezze e, in particolare, si stacca da ogni tradizione letteraria nel denunciare l'inutilità del potere.              
           







Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.
5Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli.
Sed nil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
10errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
O miseras hominum mentis, o pectora caeca!
15qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quodcumquest! nonne videre
nil aliud sibi naturam latrare, nisi utqui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
20Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino, quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.

L’immagine lucreziana non è che un’allegoria del saggio epicureo. Questi, simile agli imperturbabili dèi degli atomi, guarda l’infinito gioco della combinazione e della dissoluzione delle forme. Il suo solido terreno è la filosofia di Epicuro, che insegna a vivere senza paure e superstizioni in un universo indifferente alla sorte degli uomini. Il mare in tempesta è invece l’intera natura, di cui anche le società umane sono parte. Essa è il frutto di una incessante lotta tra gli elementi, dove il nuovo si genera dal vecchio, servendosi della sua materia e delle sue forme come di rottami di grandi naufragi. In se stesso lo spettacolo non ha niente di gradevole: la natura non è un cosmo, un ordine, in cui ci si senta spontaneamente a proprio agio, a casa. Presenta semmai un aspetto ostile, terribile. Epicuro e Lucrezio cancellano la linea di demarcazione aristotelica tra il «cosmo superiore», perfettamente ordinato e retto da una finalità non ostacolata, e il mondo sublunare in cui ordine e finalità prevalgono di norma, con fatica, sul disordine e il caso. Tutto l’universo lucreziano è lacerato dalle vicissitudini di un ordine labile che sorge dal caso, che si genera e si disintegra continuamente, senza scopo, nello spazio e nel tempo infiniti. Il saggio è colui che sa sottrarsi a tale gioco alterno di creazione e di distruzione; che, di fronte ad esso, mantiene ed ostenta la propria costanza, imperturbabilità e serenità. La sua grandezza, il suo dominio sulle tempeste ed i naufragi del mondo, non consiste tanto nella superiorità dell’intelletto, quanto nella forza dell’animo. Ma essa, a sua volta, dipende dall’esercizio della teoria, e cioè, letteralmente, dall’abitudine a contemplare uno spettacolo (è questo uno dei sensi più antichi e pregnanti del verbo theorein): lo spettacolo quotidiano di vita e di morte che la natura mette in scena. Un intrattenimento infinito, privo di epilogo, in cui nessuno degli avversari in lotta consegue una vittoria definitiva: «Così i motivi rovinosi non possono prevalere/ per sempre e seppellire in eterno la possibilità di esistenza,/ né i moti che generano e producono l’accrescersi delle cose/ possono conservare in perpetuo ciò che hanno creato./ Si svolge così con incerta contesa degli elementi/ primordiali una guerra ingaggiata da tempo infinito./ In luoghi e in momenti diversi trionfano i germi vitali dei corpi,/ e a vicenda soccombono. Si mischiano pianti di morte/ e vagiti levati da fanciulli che vedono le rive della luce;/ una notte non segue a un giorno, né un alba a una notte,/ che non abbia ascoltato, confusi con tristi vagiti,/ lamenti compagni di morte e di funebri esequie» (II, 569-580). Hans Blumenberg analizza esemplarmente l’immagine lucreziana del «naufragio con spettatore» e ne traccia la parabola attraverso le elaborazioni e le variazioni che si susseguono numerose nell’arco di due millenni. […] La svolta più netta rispetto alla tradizione esemplificata da Lucrezio si manifesta con Pascal ed avviene nel quadro della «rivoluzione copernicana». La filosofia di Pascal non consente più di tirarsi fuori dallo spettacolo del naufragio, si stare semplicemente ad osservare sulla riva. Vous êtes embarqué [«voi siete a bordo della nave»]: si è da sempre in una situazione rischiosa, in mare, in pericolo. Non si danno certezze assolute, ma solo probabilità, più o meno elevate, più o meno soggettivamente attendibili. Per questo motivo il comportamento razionale non coincide con l’aggiornamento di rischi comunque inevitabili, con il privilegiamento dell’inerzia di chi è disposto a contentarsi di poco, ma con l’accettazione di una scommessa, la più alta. Si salva, probabilmente, non chi contempla la rovina altrui, ma chi soffre e spera – secondo l’insegnamento del Vangelo – assieme agli altri, chi considera fattivamente gli uomini non come individui lontani e indifferenti, bensì come «prossimi» e fratelli. Bisogna, dice Pascal, riconoscere la precarietà, l’elemento “marino”, come il nostro ambiente naturale: «Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito; ma ogni altro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi». Non esiste più un luogo assolutamente sicuro in un universo che ha perduto il suo centro, in una Terra che è una «prigione» buia e periferica. Non si trovano più né punti di vista privilegiati e fissi per spettatori sereni e imperturbabili, né teorie che possano poggiare cartesianamente su una base incrollabile, un fundamentum inconcussum. Cade la differenza fra terra e mare: anche la terra vacilla e spalanca i suoi abissi. Si potrebbe paradossalmente “naufragare” sulla terra non più ferma. Il pathos di Pascal è forzatamente diretto verso la mobilità, l’incertezza, il rischio a cui ogni esistenza e ogni pensiero sono esposti. Lo spettatore è costretto a diventare attore, a mettere in gioco se stesso, a rischiare il naufragio. La buona coscienza è ormai negata a colui che guarda dall’esterno i mali del mondo. Solamente una speranza rischiosa, una scommessa, viene lasciata in cambio all’umanità sofferente. 
(R. Bodei, introduzione a H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 7-13 passim) 

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