domenica 4 novembre 2018

lucrezio


 il poeta




festival di filosofia, modena 2017

Lucrezio, uomo romano del I secolo a.C., ambisce a descrivere ogni aspetto della vita del mondo e dell'uomo e di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea guidato dal desiderio di liberare gli uomini dall'infelicità dovuta alle passioni e alle paure. La tensione dell'autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del suo lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale nella quale egli crede profondamente. (Gian Biagio Conte)
                                                                                               
lucrezio e l'epicureismo


lettura teatrale




piano dell'opera




De Rerum Natura


L'opera, un poema didascalico, presenta sei libri secondo uno schema di tre diadi:

 I-II      La Fisica
III-IV   L'antropologia
V-VI    La cosmologia



Per ciascun libro si distinguono un proemio (di norma un elogio di Epicuro) e un finale che contiene l'esposizione di un tema specifico che acquista autonomo rilievo.
in particolare, i finali del III libro (la paura della morte), del IV (il sesso e l'amore), del V ( la storia dell'umanità) e il VI (la peste di Atene) formano quasi dei poemetti a sé stanti.

SCHEMA GENERALE

libro         PROEMIO                          TEMA                                        FINALE

I               Inno aVenere/                     Gli Atomi                               L'infinità dell'universo
                 Elogio Epicuro     

II             Elogio della serenità          il Clinamen                            Pluralità e caducità dei mondi
                  del sapiente

III            Elogio Epicuro                    l'anima                                 La paura della morte

IV           Dichiarazione di                  le sensazioni                          il sesso e l'amore
                     poetica

V             Elogio Epicuro                   terra, cielo e corpi                 storia dell'umanità
                                                                  sospesi

VI           Elogio di Atene e di          fenomeni meteorologici           La peste di Atene
                 Epicuro                               e naturali


inno a Venere



introduzione

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis.
                                                   5
Te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
Nam simul ac species patefactast verna diei                                              10
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta                                          
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore                                                15
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.                               
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.                                           20


Progenitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei,
alma Venere, che sotto gli erranti astri del cielo vivifichi
il mare solcato da navi e la terra portatrice di messi,
poiché per opera tua ogni specie di esseri viventi
è concepita e, appena nata, vede la luce del sole.                                                         5
Te, o dea, te fuggono i venti, te le nubi del cielo
al tuo sopraggiungere, per te la terra ingegnosa
fa nascere fiori soavi, per te ride la superficie del mare
e, tornato sereno, il cielo brilla di un chiarore diffuso.
Infatti non appena si schiude l’aspetto primaverile del giorno                                    10
e, liberatosi, prende vigore il soffio fecondatore del favonio,
per primi gli uccelli dell’aria annunciano te ed il tuo arrivo,
o dea, percossi nel cuore dalla tua potenza.  
Poi le fiere e gli armenti saltellano qua e là per i pascoli rigogliosi
ed attraversano i fiumi vorticosi: così ogni animale,                                                   15
preso dal tuo fascino, ti segue avidamente dove tu voglia condurlo.
Infine per mari e monti e per fiumi che travolgono
e per le frondose dimore degli uccelli e i campi verdeggianti,
incutendo a tutti nel petto un dolce desiderio d’amare,
fai in modo che essi, bramosamente, propaghino specie per specie le generazioni.   20

sabato 3 novembre 2018

elogio di Epicuro


Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra,
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
irritat animi virtutem effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
ergo vivida vis animi pervicit, et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
quanam sit ratione atque alte terminus haerens.
quare religio pedibus subiecta vicissim
obteritur, nos exaequat victoria caelo.

Mentre la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile aspetto, incombendo dall’alto sugli uomini, per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro (obsistere contra): non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né il minaccioso brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono il fiero valore dell’animo, così che volle infrangere (effringere) per primo le porte sbarrate dell’universo. E dunque trionfò la vivida forza del suo animo e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo, e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo, da cui riporta (refert) a noi vittorioso (victor) quel che può nascere, quel che non pnò, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria (victoria) ci eguaglia al cielo.

La filosofia di Epicuro

Epicuro, il salvatore (vv. 62-79): dopo l’invocazione rituale alla dea e il trapasso didascalico che annuncia il contenuto del primo libro (vv. 54-61), Lucrezio introduce l'elogio del filosofo benefattore del genere umano, oggetto di straordinaria venerazione che si avvicinava quasi a quella dovuta alla divinità nell’ambito della sua scuola. Il solenne elogio di Epicuro e della sua virtus, trionfante sulla gravis religio (etimologicamente connessa a religo, “vincolare”) ricalca la struttura tipica degli encomi dei grandi condottieri: a questo si deve l’uso di termini del linguaggio militare, come obsistere contra... effringere (che configurano l’azione del filosofo secondo le modalita di assedio di una città), refert (che indica l’atto del “riportare” una preda), victor e victoria. È la novità dell’azione di Epicuro che viene messa in rilievo (primum... primus) insieme alla lotta impari che ha coraggiosamente intrapreso (est... ausus). Con radicale capovolgimento la religio, terribile antagonista, che un tempo sovrastava minacciosamente gli uomini a caeli regionibus, mentre la humana vita giaceva in terris, ora, con la vittoria di Epicuro, deve subire la peggiore delle umiliazioni, schiacciata a terra sotto ai suoi piedi (v. 78: pedibus subiecta vicissim obteritur) mentre l’umanità è risollevata dal suo stato di prostrazione, fino a prospettare quasi un’identificazione con la divinità (v. 79: nos exaequat victoria caelo).

venerdì 2 novembre 2018

l'empietà della religio

Il tono gioioso con cui Lucrezio, attraverso l’elogio di Epicuro, proclama la vittoria dell’umanità sulla religio, si spegne subito dopo, nella triste vicenda diIfigenia, figlia del re Agamennone.

Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. Quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Cui simul infula virgineos circum data comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem.
Nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.
Tantum religio potuit suadere malorum.


Dal v. 80 Lucrezio si rivolge direttamente al lettore e lo invita a non temere l’empietà della dottrina epicurea. Secondo l’autore, non è l’epicureismo con la sua critica alla religiosità tradizionale a portare l’uomo verso azioni contrarie alla morale, ma è proprio la religio che ha condotto gli uomini a gesti di grave empietà. Tra tutti, Lucrezio sceglie l’esempio emblematico del sacrificio di Ifigenia, uccisa dal padre Agamennone per placare l’ira degli dei (nella fattispecie Artemide, inviperita con Agamennone per l’uccisione di una cerva) e assicurare una felice navigazione agli Achei verso Troia. Si deve notare come Lucrezio prediliga la versione del mito meno diffusa e meno edulcorata: non quella a lieto fine proposta da Euripide nell’Ifigenia in Aulide (e verisimilmente ripresa nel mondo latino da Nevio e da Ennio) secondo cui la dea sarebbe intervenuta all’ultimo momento per sostituire la ragazza, peraltro vittima consenziente, con una cerva, bensì quella raccontata da Eschilo nel prologo dell’Agamennone, in cui Ifigenia, presentata come una vittima muta e riluttante alla morte, è realmente sacrificata dal padre. Solo questa versione del mito, infatti, consentiva al poeta di mettere in luce come dalla pietà religiosa possano nascere azioni empie. Dell’episodio mitico, Lucrezio descrive solo i momenti precedenti il sacrificio, concentrandosi soprattutto sulla caratterizzazione psicologica del personaggio di Ifigenia: attraverso i suoi occhi vediamo il padre vicino all’altare, i sacerdoti che celano l’arma del sacrificio e gli occhi pieni di lacrime dei concittadini; poi la ragazza viene trascinata all’altare e fatta inginocchiare. La descrizione del sacrificio, come già in Eschilo, è taciuta, mentre una lapidaria sententia conclude e commenta l’intero episodio: “tantum religio potuit suadere malorum” (ovvero: “la religio poté persuadere a compiere così grandi mali”).

vertere e communicare




la difficoltà di trasferire l'oscuro e difficile pensiero del maestro è ben chiara nella mente di lucrezio. eppure l'intento e la volontà di esser caro all'amico e aiutarlo sono la spinta per affrontare la difficoltà di una comunicazione che ha per oggetto una oscura saggezza e si esprime con una lingua "altra" e a tratti priva di termini adatti.



Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta
difficile inlustrare Latinis versibus esse,
multa novis verbis praesertim cum sit agendum
propter egestatem linguae et rerum novitatem;
140sed tua me virtus tamen et sperata voluptas
suavis amicitiae quemvis efferre laborem
suadet et inducit noctes vigilare serenas
quaerentem dictis quibus et quo carmine demum
clara tuae possim praepandere lumina menti,
145res quibus occultas penitus convisere possis.
Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.

non sfugge al mio animo che è difficile illustrare in versi latini le oscure scoperte dei greci dal momento che  bisogna trattare con nuove parole a causa della povertà della lingua e la novità del pensiero; ma la tua virtù tuttavia e il piacere sperato della soave amicitia mi convince a affrontare qualunque fatica e mi spinge a vegliare durante le notti serene cercando con quali parole e con quale poesia possa diffondere nella tua mente la splendida luce, in quali modi tu possa scrutare fin in fondo le verità occulte. Dunque è necessario che spazzino via questo terrore dell'animo e le tenebre non i raggi del sole nè i brillanti dardi del giorno ma l'aspetto (la rivelazione)e la ratio (il pensiero ragionato) della natura


indistruttibilità degli atomi

I 540-550
Praeterea nisi materies aeterna fuisset,
antehac ad nilum penitus res quaeque redissent
de niloque renata forent quaecumque videmus.
At quoniam supra docui nil posse creari
de nilo neque quod genitum est ad nil revocari,
545esse immortali primordia corpore debent,
dissolvi quo quaeque supremo tempore possint,
materies ut suppeditet rebus reparandis.
Sunt igitur solida primordia simplicitate
nec ratione queunt alia servata per aevum
550ex infinito iam tempore res reparare.

se la materia non fosse stata eterna, già da lungo tempo le cose sarebbero tutte e del tutto ritornate nel nulla; e dal nulla di nuovo sarebbe nato tutto quel che vediamo. Nulla-l'ho dimostrato-può esser creato dal nulla nè, una volta nato, ritornare al nulla: dunque, di una sostanza immortale devono esser fatti gli elementi in cui ciascun corpo si risolverà nella sua ora suprema, se la materia deve bastare senza sosta al rinnovamento delle cose. i corpi primi sono nello stesso tempo semplici e solidi; altrimenti non avrebbero potuto conservarsi attraverso le molte ore trascorse per assicurare il rinnovamento delle cose, ben oltre le ferite inferte dal tempo.
Lucrezio, come avete potuto constatare dal passo appena riportato, asseriva che i corpi fossero aggregati di atomi separati dal vuoto.
Specificava inoltre che più vuoto essi contengono, più sono leggeri e distruttibili.
Tale teoria venne ripresa, nel 1704 nientemeno che da Isaac Newton(1642-1727).

la funzione della poesia


La poesia, strumento divulgativo per eccellenza 

I 921-950
Nunc age quod superest cognosce et clarius audi.
Nec me animi fallit quam sint obscura; sed acri
percussit thyrso laudis spes magna meum cor
et simul incussit suavem mi in pectus amorem
925musarum, quo nunc instinctus mente vigenti
avia Pieridum peragro loca nullius ante
trita solo. iuvat integros accedere fontis
atque haurire, iuvatque novos decerpere flores
insignemque meo capiti petere inde coronam
930unde prius nulli velarint tempora musae;
primum quod magnis doceo de rebus et artis
religionum animum nodis exsolvere pergo,
deinde quod obscura de re tam lucida pango
carmina, musaeo contingens cuncta lepore.
935Id quoque enim non ab nulla ratione videtur;
sed veluti pueris absinthia taetra medentes
cum dare conantur, prius oras pocula circum
contingunt mellis dulci flavoque liquore,
ut puerorum aetas improvida ludificetur
940labrorum tenus, interea perpotet amarum
absinthi laticem deceptaque non capiatur,
sed potius tali pacto recreata valescat,
sic ego nunc, quoniam haec ratio plerumque videtur
tristior esse quibus non est tractata, retroque
945vulgus abhorret ab hac, volvi tibi suaviloquenti
carmine Pierio rationem exponere nostram
et quasi musaeo dulci contingere melle,
si tibi forte animum tali ratione tenere
versibus in nostris possem, dum perspicis omnem
950naturam rerum qua constet compta figura.

Quasi a conclusione del primo libro, prima di dimostrare che la materia e lo spazio sono infiniti, e dunque infinito è l’universo, Lucrezio invita il suo lettore a prestare maggiore attenzione, ed insieme chiarisce la funzione pedagogica della sua poesia, rivendicando l’efficacia della sua creazione per rendere comprensibili i dettami spesso difficili della dottrina epicurea e conferire loro una certa solennità (I, 921-950; trad. Canali): 
IL MIELE DELLA POESIA 
 Ora apprendi ciò che resta e ascolta con maggior chiarezza. Non sfugge al mio animo quanto la materia sia oscura; ma una grande speranza di gloria ha percosso il mio cuore con la punta del tirso, e insieme m’ha infuso nel petto un soave amore delle Muse: e ora infiammato da esso percorro con mente impetuosa gli impervi luoghi delle Pieridi mai prima d’ora segnati da piede mortale. Mi inebria raggiungere le fonti intatte, e trarne sorsi, mi inebria spiccare nuovi fiori e trarne al mio capo una splendida ghirlanda di cui mai ad alcuno, prima di me, ombreggiarono le tempie le Muse; prima, perché di sommi argomenti ragiono e m’adopro a districare gli animi dai nodi di vane superstizioni, poi perché su un’oscura materia (obscura de re) compongo versi (carmina) così limpidi (lucida), aspergendo ogni cosa della leggiadria del canto (musaeo lepore). Infatti anche ciò non sembra senza ragione; come i medici, quando cercano di somministrare ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, affinché l’inconsapevole età dei fanciulli ne sia illusa fino alle labbra (labrorum tenus), e frattanto beva l’amaro succo d’assenzio, senza che l’inganno nuoccia, e anzi al contrario in tal modo rifiorisca e torni in salute; così io, poiché questa dottrina appare spesso troppo ostica a quanti non l’abbiano conosciuta a fondo, e il volgo ne rifugge e l’aborre, ho voluto esporla a te nel melodioso canto pierio, e quasi aspergerla del dolce miele delle Muse,se per caso in tal modo io potessi trattenere il tuo animo con questi miei versi, fin quando tu attinga l’intera natura dell’universo, e di quale forma essa consista e si adorni 


 L’ansia per la difficoltà dell’argomento sembra arginata dalla consapevolezza della propria missione filosofica, sottolineata dal motivo tradizionale, democriteo e platonico, del poeta “invasato”, in preda a “follia” creativa (vv. 922-930), e dall’altrettanto convenzionale menzione delle Muse («Pieridi», dal nome di una delle loro sedi favorite, la Pieria). La poesia, attraverso l’insidiosa grazia delle Muse renderà più gradevole il difficile messaggio della filosofia di Epicuro: i suoi «versi... limpidi» (vv. 933-934) sono chiamati, infatti, a comunicare l’«oscura materia» dottrinale. La “grazia incantevole”, il lepos che rende “leggiadro” il canto, è un concetto importante del pensiero lucreziano, qui come principio poetico (si ricordi il lepidum... libellum di Catullo, 1, 1 e la leptÒthj callimachea), altrove finalizzato a indicare il “fascino” cogente dell’amore cosmico, che agisce su tutte le creature (come in I, 15). Nello stesso tempo Lucrezio rivendica la propria originalità (vv. 925-930): nei contenuti, rispetto ai poeti precedenti, e nella forma, nei confronti di Epicuro stesso, che aveva scritto in prosa, proclamando orgogliosamente che egli percorre regioni impervie, mai prima percorse, e attinge a fonti intatte, con immagini che evocano il proemio degli Aitia di Callimaco («questo ti ordino: dove non passano i carri pesanti, là cammina. Che non dietro le impronte degli altri [tu spinga il tuo cocchio], né per la via larga, ma per sentieri [non calpestat]i pur se guiderai per strada più angusta», fr. 1 Pfeiffer, vv. 25-28, trad. D’Alessio), forse mediate attraverso il proemio del VII libro degli Annali enniani («Sull’argomento scrissero altri in versi con cui una volta cantavano i Fauni e i vati, poiché né [alcuno era salito sui] colli delle Muse, né alcuno prima di me vi fu che fosse amante del sapere poetico», trad. Traglia). La dichiarazione programmatica circa la funzione della poesia ai versi 933-934 viene poi illustrata mediante un efficace paragone (vv. 935-950) di derivazione platonica (Leggi, 659e): alla stregua di un medico, che cosparge di miele il bordo della tazza che contiene una medicina amara, ma necessaria alla guarigione del giovane malato, Lucrezio “somministra” a Memmio (e ai suoi lettori) gli insegnamenti salvifici di Epicuro, nella veste di un godibile componimento poetico. La poesia ha dunque una funzione precisa e ben delimitata di piacevole “ammaestramento”, ulteriormente precisata dall’espressione «fino alle labbra» (v. 940): l’inganno operato sull’ “inconsapevole fanciullo”– immagine del destinatario dell’opera – si ferma alle labbra, cui il miele fa sembrar dolce l’assenzio; e come il miele anche la poesia lucreziana svolge la sua funzione soltanto a livello superficiale, tenendo avvinto il lettore all’insegnamento filosofico con l’armonia dei versi, dei ritmi e delle immagini, mentre a penetrare in profondità è l’insegnamento benefico (ma "amaro", come l’assenzio) di Epicuro. Se ne sarebbe ricordato Tasso, in apertura della Gerusalemme liberata (I, st. 3): «così a l’egro fanciul porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso: / succhi amari ingannato intanto ei beve, / e da l’inganno suo vita riceve». Lo stile poetico, l’agilità delle forme espressive, la copiosità delle osservazioni umane, alcune analogie con il lessico di Catullo denunciano una qualche influenza del contemporaneo movimento neoterico, sebbene nel complesso la poesia lucreziana sia chiaramente forgiata sul modello dell’epica latina arcaica (Ennio in particolare), rivoluzionata però nei contenuti. Lucrezio, cioè, compone un poema nello stile epico della poesia tradizionale, grandioso nel disegno complessivo e solenne nella sua autentica ispirazione “religiosa”, ma innovativo in quanto portavoce di una “nuova” filosofia – la quale, tra l’altro, suggerisce un radicale mutamento nello stile di vita e nella condotta pubblica – che Lucrezio si sforza di far penetrare nella classe dirigente romana.

giovedì 1 novembre 2018

L'umanità secondo la sapienza epicurea





L'affannarsi degli uomini alla ricerca del piacere, della ricchezza e del potere risulta esser una meschinità agli occhi del poeta epicureo. la ricchezza infatti non può assicurare la felicità e il potere non può che renderci schiavi anch'esso delle nostre paure. Solo la filosofia con la ragione e la conoscenza della natura può determinare la liberazione dalle paure e delle angosce. Lucrezio rinnova il tema della svalutazione delle ricchezze e, in particolare, si stacca da ogni tradizione letteraria nel denunciare l'inutilità del potere.              
           







Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.
5Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli.
Sed nil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
10errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
O miseras hominum mentis, o pectora caeca!
15qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quodcumquest! nonne videre
nil aliud sibi naturam latrare, nisi utqui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
20Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino, quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.

L’immagine lucreziana non è che un’allegoria del saggio epicureo. Questi, simile agli imperturbabili dèi degli atomi, guarda l’infinito gioco della combinazione e della dissoluzione delle forme. Il suo solido terreno è la filosofia di Epicuro, che insegna a vivere senza paure e superstizioni in un universo indifferente alla sorte degli uomini. Il mare in tempesta è invece l’intera natura, di cui anche le società umane sono parte. Essa è il frutto di una incessante lotta tra gli elementi, dove il nuovo si genera dal vecchio, servendosi della sua materia e delle sue forme come di rottami di grandi naufragi. In se stesso lo spettacolo non ha niente di gradevole: la natura non è un cosmo, un ordine, in cui ci si senta spontaneamente a proprio agio, a casa. Presenta semmai un aspetto ostile, terribile. Epicuro e Lucrezio cancellano la linea di demarcazione aristotelica tra il «cosmo superiore», perfettamente ordinato e retto da una finalità non ostacolata, e il mondo sublunare in cui ordine e finalità prevalgono di norma, con fatica, sul disordine e il caso. Tutto l’universo lucreziano è lacerato dalle vicissitudini di un ordine labile che sorge dal caso, che si genera e si disintegra continuamente, senza scopo, nello spazio e nel tempo infiniti. Il saggio è colui che sa sottrarsi a tale gioco alterno di creazione e di distruzione; che, di fronte ad esso, mantiene ed ostenta la propria costanza, imperturbabilità e serenità. La sua grandezza, il suo dominio sulle tempeste ed i naufragi del mondo, non consiste tanto nella superiorità dell’intelletto, quanto nella forza dell’animo. Ma essa, a sua volta, dipende dall’esercizio della teoria, e cioè, letteralmente, dall’abitudine a contemplare uno spettacolo (è questo uno dei sensi più antichi e pregnanti del verbo theorein): lo spettacolo quotidiano di vita e di morte che la natura mette in scena. Un intrattenimento infinito, privo di epilogo, in cui nessuno degli avversari in lotta consegue una vittoria definitiva: «Così i motivi rovinosi non possono prevalere/ per sempre e seppellire in eterno la possibilità di esistenza,/ né i moti che generano e producono l’accrescersi delle cose/ possono conservare in perpetuo ciò che hanno creato./ Si svolge così con incerta contesa degli elementi/ primordiali una guerra ingaggiata da tempo infinito./ In luoghi e in momenti diversi trionfano i germi vitali dei corpi,/ e a vicenda soccombono. Si mischiano pianti di morte/ e vagiti levati da fanciulli che vedono le rive della luce;/ una notte non segue a un giorno, né un alba a una notte,/ che non abbia ascoltato, confusi con tristi vagiti,/ lamenti compagni di morte e di funebri esequie» (II, 569-580). Hans Blumenberg analizza esemplarmente l’immagine lucreziana del «naufragio con spettatore» e ne traccia la parabola attraverso le elaborazioni e le variazioni che si susseguono numerose nell’arco di due millenni. […] La svolta più netta rispetto alla tradizione esemplificata da Lucrezio si manifesta con Pascal ed avviene nel quadro della «rivoluzione copernicana». La filosofia di Pascal non consente più di tirarsi fuori dallo spettacolo del naufragio, si stare semplicemente ad osservare sulla riva. Vous êtes embarqué [«voi siete a bordo della nave»]: si è da sempre in una situazione rischiosa, in mare, in pericolo. Non si danno certezze assolute, ma solo probabilità, più o meno elevate, più o meno soggettivamente attendibili. Per questo motivo il comportamento razionale non coincide con l’aggiornamento di rischi comunque inevitabili, con il privilegiamento dell’inerzia di chi è disposto a contentarsi di poco, ma con l’accettazione di una scommessa, la più alta. Si salva, probabilmente, non chi contempla la rovina altrui, ma chi soffre e spera – secondo l’insegnamento del Vangelo – assieme agli altri, chi considera fattivamente gli uomini non come individui lontani e indifferenti, bensì come «prossimi» e fratelli. Bisogna, dice Pascal, riconoscere la precarietà, l’elemento “marino”, come il nostro ambiente naturale: «Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito; ma ogni altro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi». Non esiste più un luogo assolutamente sicuro in un universo che ha perduto il suo centro, in una Terra che è una «prigione» buia e periferica. Non si trovano più né punti di vista privilegiati e fissi per spettatori sereni e imperturbabili, né teorie che possano poggiare cartesianamente su una base incrollabile, un fundamentum inconcussum. Cade la differenza fra terra e mare: anche la terra vacilla e spalanca i suoi abissi. Si potrebbe paradossalmente “naufragare” sulla terra non più ferma. Il pathos di Pascal è forzatamente diretto verso la mobilità, l’incertezza, il rischio a cui ogni esistenza e ogni pensiero sono esposti. Lo spettatore è costretto a diventare attore, a mettere in gioco se stesso, a rischiare il naufragio. La buona coscienza è ormai negata a colui che guarda dall’esterno i mali del mondo. Solamente una speranza rischiosa, una scommessa, viene lasciata in cambio all’umanità sofferente. 
(R. Bodei, introduzione a H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 7-13 passim)